laR+ L’intervista

‘Far finta di essere sani’, Andrea Mirò canta Giorgio Gaber

Spettacolo del 1973, parte rilevante del lascito del Signor G, nella versione della cantautrice insieme a ‘un gruppo di fan’. Il 18 gennaio al Sociale

A Bellinzona
16 gennaio 2023
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Cantante, compositrice, cantautrice, produttrice. Sono per lei i giorni di ‘Camere con vista’, una doppia raccolta con tutta Andrea Mirò dal 2000 al 2016. Sono anche – e la cosa ci tocca ancor più da vicino – i giorni di ‘Far finta di essere sani’, il Gaber imprescindibile del 1973 che Mirò, in tempi non sospetti, ha deciso di riportare in scena. Diretto da Emilio Russo, lo spettacolo raggiunge Bellinzona mercoledì 18 gennaio alle 20.45 (biglietti su ticketcorner.ch e InfoPoint Bellinzona). Sul palco con Mirò, l’attore Enrico Ballardini e i ‘Musica da ripostiglio’, ovvero Luca Pirozzi (voce, chitarra), Luca Giacomelli (chitarra), Raffaele Toninelli (contrabbasso) ed Emanuele Pellegrini (batteria)

Incomunicabilità, discrepanza tra ideali e vita reale, alti e bassi dell’essere umano, anche bassissimi, presunta sanità mentale: ‘Far finta di essere sani’ è il disco del 2023?

In linea di massima sì, perché l’attualità di Gaber è tale che ogni tema trattato in quell’opera può essere declinato al presente cambiando ben poco, forse soltanto i nomi. D’altra parte, la qualità dei grandi autori, dei cantautori, degli artisti in generale è quella di trasformare microuniversi in temi universali. Cinquant’anni dopo, l’essere umano è ancora lì dove si trovava, non ha fatto passi da gigante, anzi, per certi versi è pure indietreggiato. Nei contenuti degli spettacoli, Gaber e Luporini hanno sempre intercettato qualcosa di appartenente all’essere umano che quest’ultimo non ha mai risolto.

Il suo personale ‘Far finta di essere sani’ non è finalizzato al 50ennale dello spettacolo, perché nasce prima di tutto questo…

La nostra versione nasce da un gruppo di fan di Gaber: io, Enrico Ballardini e i ‘Musica da ripostiglio’, con me sul palco, e il regista Emilio Russo. Alla fine del 2019 ci siamo ‘intercettati’ sul riportare in scena lo spettacolo che più ci piaceva, oltre che uno dei più famosi e con al suo interno molti dei suoi brani più noti. Abbiamo trattato Gaber come un classico, quale egli è, risparmiando i monologhi per non rischiare di farne la copia. Poco dopo, ci siamo ritrovati chiusi; ne è derivato, ahimè, un lavoro a distanza, poi è arrivata la messa in scena in uno dei pochi momenti in cui ci hanno lasciati liberi, fino alla presentazione, tra la fine del 2021 e il 2022. E siamo ancora in scena.

Quanta responsabilità ha sentito nel mettere in scena Giorgio Gaber?

Ritenendo che Gaber sia un autore classico, metterlo in scena significa interpretarlo a modo proprio, portandone il peso e la responsabilità, ma mettendo sé stessi fino in fondo. È ciò che succede quando si decide di affrontare un grande nome, e come tutti i grandi, Gaber appartiene a tutti. La cosa bella è non avere paura di spostare le carte. In questa nostra versione non inquiniamo nulla, i contenuti e la struttura restano gli stessi del 1973, non facciamo altro che equilibrare quanto accade sul palco. Ci siamo resi conto che a molti di coloro che lo conoscono ha fatto piacere ‘riviverlo’ e che molti giovani sono rimasti fulminati. Credo non s’aspettassero così ‘tanta roba’, per usare un termine giovanile.

Liriche così serrate come in ‘Dall’altra parte del cancello’ chiamerebbero una versione rap, ammesso che già non esista…

Non so se qualcuno lo abbia mai rappato, di certo ‘Dall’altra parte del cancello’ è uno dei miei pezzi preferiti. Per tutto il lavoro sull’alienazione, sulla follia, per quel tentativo di rispondere alla domanda alla quale volle rispondere anche Alda Merini, quella su chi sia normale, su chi decida la normalità. Gaber e Luporini, per questo brano, fecero un gran lavoro di ricerca: studiarono manuali di psicologia e psicoterapia, incontrarono Basaglia (Franco, 1924-1980, da cui l’omonima legge che in Italia impose la chiusura dei manicomi). Dietro ogni lavoro di Gaber c’è sempre stato un lavoro esagerato, che sul palco emerge.

Parole di Andrea Mirò: ‘Gaber è ironia e tragedia. E gergo’. Sta in questo la sua forza?

Secondo me sì. Gaber sapeva sempre darti un colpo in testa, pesantissimo, e alleggerire il carico un attimo dopo. Penso a Brassens, un altro che raccontava il dramma usando ironia e autoironia, mettendosi ‘dentro’ come faceva Gaber. Il tutto, insieme a una raffinatezza testuale che rendeva tutto digeribile, anche le pietre, scagliate violentemente. Allo stesso modo, Gaber sapeva colpirti ripetutamente, tanto con una mazza quanto con una risata.

Gaber ha partecipato a quattro Festival di Sanremo prima di cambiare strada, atto decisamente poco convenzionale soprattutto in quel periodo storico. All’ironia e alla tragedia si può aggiungere il coraggio?

Sì, coraggioso lo è sempre stato. Andava spesso in direzione contraria a quella che gli altri si aspettavano. Ne parlava, di questo smettere di dover rendere conto perché ‘si usa’, perché ‘tutti lo fanno’, un errore tanto più per un artista. Perché quell’artista che non butta mai il cuore oltre l’ostacolo, non alza mai l’asticella, non rischia mai, non ha senso di lavorare come tale. ‘Artista’ è colui che si volta laddove gli altri non si voltano, che guarda l’altra faccia della medaglia che gli altri non guardano, che fornisce mezzi aggiuntivi per una lettura più chiara della realtà e della vita.

Anche lei è stata quattro volte al Festival, da sola o con Enrico Ruggeri, e altre volte ancora alla direzione dell’Orchestra per altri artisti. I suoi ‘Sanremi’ sono stati tutti scevri da convenzioni: quanto c’entra Gaber?

Posso dire che mi ritrovo molto nel suo atteggiamento, a volte, da bastian contrario, nel suo saper chiudere le porte di stanze che contenevano la certezza, il pubblico festante e gli intellettuali a lui affezionati, per lasciarli tutti a bocca aperta e ritrovarli più avanti, una volta compreso. Anche a me piace sbaragliare il mazzo, anche io sono un bastian contrario. Credo nella missione esplorativa dell’artista, applicata prima di tutto a sé stesso.

La folgorazione da Gaber, nel suo caso, ha un momento specifico?

Ero piccola, i miei primi ricordi sono legati alla fisicità della sua comunicazione. Magari non ne comprendevo la portata esatta, il significato, ma capivo che in quel momento stava accadendo qualcosa di forte, d’inaspettato. Dal punto di vista dei contenuti, l’ho conosciuto più avanti, perché a vent’anni capita di ascoltare dell’altro. Oggi, quel Gaber in bianco e nero mi piace ancora tanto. E poi basta andare sulle piattaforme per vederlo performare e scoprire, tra le cose che già conosci, altre mille sfumature.

Tale è la portata di ‘Far finta di essere sani’ che per qualcuno è il vero testamento artistico. Per i più, il testamento è ‘Io non mi sento italiano’. Lei si sente sempre italiana?

Sì, mi sento molto italiana. Scrivo in italiano, una delle arti più complesse in musica. Mi sento italiana nonostante tutto, nonostante l’abbassamento del livello culturale di un Paese che dovrebbe essere il punto di riferimento mondiale della cultura. Me ne dispiaccio ogni volta, ma non mollo il colpo. Il titolo della mia raccolta, ‘Camere con vista’, viene da una frase meravigliosa di Conrad: "Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?". È quel che m’immagino di fare ogni qualvolta mi appresto a scrivere in italiano, o a scrivere dell’Italia, sperando di rimanere ancora stupita dal suo potersi risollevare, per tornare a essere quello che è.

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