Letteratura

La continua ricerca di Siddhartha

L’opera di Hermann Hesse compie il secolo di vita e conta innumerevoli ripubblicazioni, merito del carattere universale della figura protagonista

Hesse fu Premio Nobel per la letteratura nel 1946
(WikiMedia)
27 settembre 2022
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Prima della fine dell’articolo forse ritroverò i tre versi di Gottfried Benn che intendo condividere con i lettori. Ho letto che Benn fu assai duro nel commentare ‘Siddhartha’ di Hermann Hesse – che compie un secolo quest’anno –, ma in quei versi di tanti anni dopo, una trentina, senza accorgersene, in qualche modo riassumeva quasi tutto ‘Siddhartha’.

Ho anche letto che Hesse fu molto deluso dalle prime reazioni sul suo libro – che sottotitolò "poema indiano", e questa dovrebbe restare la prima definizione sul genere perché definizione d’autore –, reazioni che quasi non ci furono.

La sua delusione ci dice intanto che se le conquiste di Siddhartha personaggio sono tutte reversibili – ora scontento e ora sollevato, speranzoso, ora triste, quasi sempre sorridente, ora disgustato poi di nuovo animoso, spesso lieto, scherzoso – tanto più lo sono quelle dell’autore, uscito ormai dalla sua creazione. Ovviamente era presto per giudicare. Un secolo di riedizioni – in Italia siamo alla novantaduesima, solo per l’editore che ne possiede i diritti, Adelphi, e solo per una delle collane in cui è uscito – dimostrano che la delusione sarebbe presto passata.

La traduzione di Mila

La storia dell’editoria ci dimostra che un libro, quanto più è autentico e universale, tanto più è immune dalle traduzioni maldestre. Ne esce indenne o più forte di prima. Ma ‘Siddhartha’ ha avuto un traduttore d’eccezione in più di un senso. Musicologo prima che letterato, musicologo fuori dal comune perché poteva fare dei suoi libri, per forza di cose specialistici, un’opera di vera scrittura, Massimo Mila si ritrovò sulla scrivania un certo numero di testi di tema orientale, soggetto che cominciava ad andare molto bene in quel momento, nei primi anni Quaranta. Tieni, scegli il migliore secondo te, e traducilo. Così ha dovuto dirgli più o meno l’editore Frassinelli, o l’editor, che allora non si chiamava così. E Mila, abbastanza distante da quei temi, anzi più che diffidente, scelse ‘Siddhartha’ e lo tradusse come l’avrebbe tradotto Pavese, per fare un solo nome della sua cerchia di amici e colleghi. Possiamo permetterci un’altra esagerazione, gli ottant’anni di vita ormai del lavoro di Mila forse ce lo consentono: se Hesse fosse stato italiano, avrebbe scritto ‘Siddhartha’ più o meno così; con simile sicurezza e naturalezza, simile nitore.

Siddhartha arriva da noi oltre vent’anni dopo la prima pubblicazione. Aveva già fatto il giro d’Europa e del mondo, soprattutto della stessa India in cui era ambientato. Gli indiani di molte lingue, di una quarantina di dialetti, appresero i frutti della spiritualità del proprio Paese da uno scrittore tedesco. Frutti mescolati di cultura e filosofia tedesca inevitabilmente. E della religiosità pietistica dalla quale Hesse si sforzò di fuggire, adolescente, per ritrovarsi in un luogo non molto distante da adulto, per scelta. Qualcosa di simile era avvenuto per Siddhartha.

Quanto ha dovuto meditare il suo personaggio, con tutti gli altri – il barcaiolo Vasudeva, o Kamala l’amante, l’amico Govinda –, per darne un’espressione tanto viva? Proprio la vitalità distingue il protagonista: per cercarla lascia la casa dei genitori, per cercarla nel mondo e fuori da ogni autorità e ogni dottrina. Per sentirsi vivere e rifarsi una vita interiore, da solo, come fecero più o meno, in ogni ambito religioso, i fondatori di una nuova corrente o un nuovo ordine.

Autenticità, universalità

Siddhartha continua a cercare ancora oggi, e questo è ciò che più attrae in lui. Nessuna conquista è definitiva, non solo per umana interiore ambizione, ma per fragilità e scontentezza, come accade a tutti. Perciò continua a parlare a ognuno e il suo fascino non conosce ostacoli di lingua o di cultura. Siddhartha, bisogna ripeterlo, è il deluso e lo scontento, e perciò è il viandante, l’errante, l’inquieto e il quieto, è l’entusiasta e di nuovo il disilluso, il melanconico e l’illuso, lo speranzoso, quando è triste è al tempo stesso, tante volte, ilare, scherzoso ("Allora rise Siddhartha, alla maniera sua, mentre sul tono della sua voce si stendeva un’ombra di tristezza e anche un’ombra di canzonatura, e disse..."). Siddartha è il sorridente.

Lo immaginiamo sempre giovane e che non smette di andare. Gli unici momenti in cui non ci convince, o convince meno, è quando le conclusioni a cui è arrivato – che riferisce a Govinda, al barcaiolo, a se stesso – paiono convincere poco anche lui. Perché non è da Siddhartha "concludere". Cerca il bene, incessantemente: cosa sia il bene per sé, partendo dalla dolcezza che già possiede, ma non sa da dove vengano l’uno e l’altra. Come non lo sa Gottfried Benn in quei tre versi, in quel non-sapere tanto più desiderabile del sapere: "Mi sono spesso domandato e non ho trovato risposta, / da dove venga la dolcezza e il bene, / nemmeno oggi lo so e ora devo andare".

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