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Come sbiancare una sirenetta

Un saggio ricostruisce la storia dell’espressione ‘lavare un etiope’ e ci aiuta a capire la vera dimensione politica del casting del prossimo film Disney

Halle Bailey sarà Ariel
23 settembre 2022
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Sarà che sono uno di quelli che si appassiona all’idea di calcolare quante calorie ha il lembas, il "pane viatico" che nel ‘Signore degli anelli’ gli elfi di Lórien garantiscono essere sufficiente per un’intera giornata di attività fisica intensa, ma mi sembra naturale ragionare sugli aspetti scientifici del colore della pelle di una creatura per metà umana che vive negli abissi marini.

Il riferimento è ovviamente alle polemiche per la decisione di affidare alla cantante Halle Bailey il ruolo di Ariel, la sirenetta dell’omino film Disney di cui avremo un remake con attori in carne e ossa. Polemiche che però hanno poco a che fare con la plausibilità scientifica (o meglio fantascientifica, visto abbiamo a che fare con creature fantastiche). E infatti quelli che "non sono razzista ma una sirenetta nera proprio no" si appellano alla filologia, confermando in pieno il motto secondo cui la tradizione è la ragione di chi non ha più ragioni. Perché è una filologia ben curiosa, che considera come fonte originaria un film d’animazione del 1989, ha ricordi selettivi della fiaba di Andersen – nella quale il principe sposa un’altra e rischia di venir pugnalato da Ariel – e ignora del tutto le sirene della mitologia greca, metà donne e metà uccelli.

Una cosa va comunque riconosciuta, ai critici di Ariel/Halle Bailey: la politica molto probabilmente ha giocato un ruolo, nella scelta dell’attrice. Molte produzioni televisive e cinematografiche applicano il cosiddetto "color blind casting", in pratica non specificano l’etnia del personaggio aprendo a tutti le audizioni, ma è un sistema che può funzionare bene con una serie tv come Grey’s Anatomy mentre è difficile applicarlo fedelmente a un blockbuster come si appresta e diventare la nuova ‘Sirenetta’ Disney.

Quindi sì, facile che nella scelta abbiano giocato un ruolo anche valori come l’inclusività e la diversità, oltre magari a qualche riflessione più commerciale su come raggiungere un pubblico più ampio.

Del resto, e questo è forse il punto più importante di tutta questa polemica, anche la scelta di rappresentare con la pelle chiara la sirenetta Ariel e tantissimi altri personaggi di fantasia ha una dimensione politica, per quanto implicita. Ed è forse il caso di rendere esplicita questa dimensione politica, non per accusare di razzismo l’intera cultura occidentale ma per capire meglio cosa c’è in quella tradizione alla quale facciamo continuamente riferimento.

Aithíopa smēchein

In questo ci aiuta un bel saggio del linguista Federico Faloppa appena uscito per Utet: ‘Sbiancare un etiope’ non si occupa di sirene o elfi, ma di una immagine che ha caratterizzato, fin dall’Antichità, il rapporto degli europei con gli "altri": è la metafora – che a volte ha trovato applicazione letterale – dello schiarire, di solito tramite lavaggio, le persone dalla pelle scura.

Le origini ci portano al mondo greco e latino, dove appunto "etiope" indicava genericamente chi proveniva dall’Africa subsahariana. L’espressione latina "aethiopem lavare", calco letterale del greco "Aithíopa smēchein", risale almeno ai primi secoli dopo Cristo e significava "fare una cosa inutile". Il che è banalmente vero: visto che il nero della pelle non è dovuto a sporco o tintura non c’è effettivamente niente da lavare. E in origine il detto aveva effettivamente questo significato neutro: come si legge a pagina 22, "in generale né il colore della pelle, né tratti somatici peculiari erano visti come propri di un gruppo ’etnico’ per definizione inferiore, né come elementi di inconciliabile alterità rispetto al ‘tipo’ greco", per quanto in età romana una carnagione particolarmente chiara fosse percepita, soprattutto tra le donne delle classi agiate, come segno di uno status sociale elevato.

La situazione è cambiata con il cristianesimo: da una parte l’Etiopia è diventata terra in cui portare il messaggio universale della Chiesa; dall’altra il nero della pelle si è caricato di un simbolismo fortemente negativo. "Per i Padri della Chiesa il colore nero non tardò a significare il colore del diavolo, del peccato e della perdizione per antonomasia". Avere la pelle scura diventa così metafora del peccatore che non ha ancora ricevuto la luce divina: l’impossibile compito di "sbiancare un etiope" è la redenzione dal peccato e dal male, possibile solo per intervento divino.

La connotazione religiosa passò in secondo piano durante il Rinascimento, dove l’immagine dell’etiope sbiancato trovò ampia diffusione anche grazie a Erasmo da Rotterdam e a una fiaba attribuita a Esopo, diventando metafora di tutti gli inutili tentativi di superare sia i limiti che la natura ha posto agli esseri umani, sia confini stabiliti dalla società. L’immagine del moro sbiancato si è ovviamente legata al colonialismo e allo schiavismo e non sorprende che il concetto sia stato evocato contro l’abolizionismo che, appunto, renderebbe bianco (cioè libero) chi è per natura nero (cioè naturalmente soggiogato). Con l’Ottocento l’idea di "sbiancare un nero" ha incontrato la diffusione dell’igiene e del sapone, diventando un’immagine ricorrente nelle pubblicità (non solo del periodo: l’indagine di Faloppa è anzi partita da una sfortunata campagna della Dove con la modella Lola Ogunyemi). Il fatto è che la pulizia "non era solo un fatto fisico, ma anche e soprattutto un fatto morale: un sigillo di rettitudine, una benedizione della proprietà domestica e, last but not least, un dovere civile" (pag. 120), con tutte le implicazioni che è facile immaginare. È con quelle réclame, "messaggi che non avevano bisogno di troppe spiegazioni, per quanto graficamente chiari, facili da capire e da assimilare", che la gran parte della popolazione ha incontrato, e assimilato, le politiche coloniali le nuove ideologie razziste.

Faloppa conclude la sua analisi con alcuni "Appunti sull’oggi", perché la potente metafora dello sbiancare un etiope non è affatto scomparsa e anzi, spesso ha cessato di essere una metafora, tra prodotti chimici in grado di sbiancare la pelle e la convinzione che i neri, per ottenere la parità di diritti, avrebbero dovuto modificare abitudini e modo di presentarsi, seguendo i modelli (anche estetici) dei bianchi.

Arrivati alla fine del saggio si rimane sorpresi, da quanto è lunga e complessa la storia di quella che, prima di prendere in mano il libro, era semplicemente un’immagine datata e di cattivo gusto. E si inizia a intuire perché non è un caso, e non è neanche filologia, il motivo per cui eroi ed eroine del nostro immaginario collettivo hanno quasi sempre la pelle bianca.

Post scriptum

Per la cronaca, Skye Rosetti e Krisho Manaharan hanno calcolato che una pagnotta di lembas contiene circa 2600 kcal, pubblicando il risultato sul ‘Journal of Interdisciplinary Science Topics’, una rivista realizzata dagli studenti dell’Università di Leicester per fare pratica con gli articoli accademici. Visto che Tolkien descrive i lembas come focaccine sottilissime, abbiamo una densità energetica superiore a quella di benzina, metano e idrogeno: l’unica è che contengano dell’uranio, reso digeribile dalla magia elfica.

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