Cinema

Le ombre del passato sulla lotta di Semret, mamma e immigrata

Il 15 settembre nelle sale ticinesi il primo lungometraggio di Caterina Mona. Interviste alle protagoniste Lula Mebrahtu e Hermela Tekleab e alla regista.

Lula Mebrahtu (Semret), Caterina Mona (regista), Hermela Tekleab (Joe) all’anteprima al Locarno Film Festival 2022
(Keystone)
14 settembre 2022
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«Caterina ci ha lasciate sole in una stanza, dicendoci ‘siate amiche’. E ha funzionato». Lula Mebrahtu scoppia in una risata che coinvolge Hermela Tekleab. Madre e figlia nel primo lungometraggio della ticinese Caterina Mona, sembra si conoscano da sempre sebbene in realtà, prima di recitare in ‘Semret’ – film presentato in anteprima mondiale al recente Locarno Film Festival – non solo non sapevano una dell’esistenza dell’altra, ma nessuna delle due aveva mai recitato per il cinema.

Ha funzionato e «ora è la mia sorellina per la vita», dice Lula della giovane Hermela con una naturale dolcezza, che il suo personaggio Semret nasconde invece sotto una scorza. E ha funzionato al punto da commuovere alle lacrime la regista, al termine della scena con la quale le aveva messe alla prova. Quella del grosso litigio tra mamma e figlia, in cui Semret dà anche uno schiaffo a Joe. «È così che ci siamo sentite sollevate e dette "abbiamo fatto un buon lavoro"», racconta Lula Mebrahtu, incontrata con Hermela Tekleab in un caldissimo pomeriggio a poche ore dalla proiezione in Piazza Grande.

Nella Lula dai capelli che paiono una nuvola, l’elegante abito color carta da zucchero con vezzoso fiocco, la voce che pare un sussurro dallo spiccatissimo accento british, di primo acchito si fatica a trovare tratti di Semret. Come lei – sorride, rispondendo dopo una lunga riflessione – dice di avere «la resilienza. Un insegnante di recitazione una volta mi disse che l’obiettivo nel sostenere un ruolo, non è pretendere di essere qualcun altro, bensì lavorare su ciò che si può avere in comune con il personaggio e sulle differenze. E poi di ‘svestirsene’, così da non focalizzarsi né su una né sull’altra cosa e rimanere focalizzati solo sul protagonista. Suppongo che tutto ciò che è Semret, è anche ciò che sono io; poi però io sono e posso essere altro. Lei è in costante lotta con la vita e trovo ammirevoli la sua coerenza e il suo pragmatismo, che declina in una routine quotidiana molto definita. Io non sono così – sorride –; perlomeno non tutto il tempo». Per diventare una donna tanto diversa, l’attrice londinese di adozione ha lavorato dapprima sulla fisicità, «perché una volta che sei ancorata al personaggio, poi capisci il resto. Dunque inizialmente mi chiedevo cose del genere ‘come cammina Semret quando è stanca?, come parla quando è preoccupata?’. Sono stata fortunata, perché ho avuto il supporto di un ottimo team. Inoltre con Caterina abbiamo lavorato parecchio su come essere lei; perciò quando si è trattato di girare con gli altri attori, io ero già Semret». E lo è rimasta per le sei settimane di riprese, durante le quali «non sono mai tornata completamente Lula. Ad esempio ho sempre tenuto i capelli come la protagonista, non vaporosi come li porto di solito. Ogni giorno arrivavo sul set ed ero lei ancor prima d’iniziare a girare».

Del film, l’attrice ha amato il fatto che «il focus non è sull’immigrazione. Mi è piaciuto recitare, perché essenzialmente racconta la storia di una madre e una figlia; su quel momento che arriva a tutti, non unicamente agli immigrati, in cui la quotidianità cambia. Ogni madre, penso, deve fare i conti col suo proprio passato. Un confronto che porta a crescere e a colmare il fossato generazionale. Semret per me è stata di grande ispirazione e mettermi nei suoi panni è stato un piacere e un onore».

Una Semret in cui la giovane Hermela Tekleab, quando l’ha scoperta leggendo il copione, ha riconosciuto una storia e questo l’ha fatta emozionare «tanto da scoppiare in lacrime. Lei è il nome di tutte le Semret del mondo. Sapere di poter rappresentare e ricreare un pezzo che può essere un simbolo di speranza, è stato per me parecchio toccante».

Tra porte lasciate aperte e vie incrociate

In ‘Semret’ Caterina Mona parla di due temi «cui tenevo molto»: come si sviluppa una relazione con un bambino nato da una violenza sessuale e le storie degli immigrati eritrei. «Vivo in un quartiere a Zurigo in cui ci sono diverse persone eritree e, conoscendole, mi sono interessata al loro Paese, alla dittatura, a come fanno per arrivare in Europa e in Svizzera e alle brutalità che, specie le ragazze ma non solo, subiscono durante la fuga. Anche per questo mi premeva mettere una donna single al centro della storia».

La questione della violenza subita dalla protagonista viene fatta intuire ma mai esplicitata. Come mai?

«È una scena difficile, come difficile era la scelta di quando dirlo e come dirlo. Perché Semret ne parla per la prima volta, e dunque forse non trova le parole per raccontare l’episodio; e anche perché lo dice alla figlia, che oltretutto ha solo 14 anni. Con una ragazzina si usano altre parole che non quelle che si userebbero parlando a un adulto».

Il film si chiude con quello che sembra però più un inizio. Perché lasciare una porta così aperta?

«I film che mi piacciono finiscono così – sorride –. Un po’ come è la vita: si fa un passo e poi verranno i prossimi, magari alcuni all’indietro. Non volevo chiudere tutto e, solo in sede di montaggio, ho deciso che il finale non definitivo non era la sola cosa che volevo lasciare non completamente risolta. Per tornare al finale. Il dettaglio del ragazzo sullo skateboard che si sente passare, per me è importante: è una sorta di lancio, che ci porta in un mondo nuovo».

Quando un progetto sta tanto a cuore, non si ha il timore di non riuscire a trasmetterlo come si vorrebbe?

«Certo, è una paura reale. Creare un progetto è una sorta di parto ed è doloroso. Però penso che le paure non facciano altro che bloccarci e non mi servono; e ciò che non serve, è meglio lasciarlo andare».

Com’è stato girare un primo lungometraggio con attrici pure esordienti?

«Non ho l’esperienza di un lungometraggio mio con attori affermati, dunque non saprei dire la differenza. Credo molto che la vita ci porti laddove si doveva andare e con Lula e Hermela posso dire che ci siamo trovate. Le nostre vie si sono incrociate ed è stato qualcosa di organico».

Il film

Un confronto col proprio passato

Semret è una madre single che vive con la figlia Joe in un piccolo appartamento a Zurigo, e che lavora in un ospedale e studia per essere ammessa alla formazione di levatrice. Fa di tutto per assicurare alla figlia adolescente una vita migliore di quella lasciata alle spalle in Eritrea. Quando Joe inizia a fare pressione per sapere di più sulle sue origini, Semret deve confrontarsi con il proprio passato. E la vita protetta che si è costruita in Svizzera, minaccia di disintegrarsi.

Lula Mebrahtu è nata in Eritrea e si è trasferita in Inghilterra all’età di sei anni. Ha iniziato a recitare fin da giovane e, dopo una laurea in psicologia, si è diplomata alla Wac Arts di Londra. Ha al suo attivo lavori come presentatrice di eventi musicali e come attrice di teatro.

Anche Hermela Tekleab è nata in Eritrea, Paese che, insieme alla mamma, al fratello e alla sorellina, ha lasciato anch’essa a sei anni per infine raggiungere il papà in Svizzera, alcuni mesi più tardi. Dopo le scuole dell’obbligo frequentate a Zurigo, sta seguendo un apprendistato di assistente dentale alla clinica universitaria a Zurigo.

Da giovedì 15 settembre il film è in cartellone al Lux di Massagno, all’Otello di Ascona, al Forum di Bellinzona e al Mulstisala Mignon di Mendrisio. Il 21 settembre si potrà vedere al cinema teatro Blenio di Acquarossa e il 22 ottobre al cinema Leventina di Airolo. Alle ultime due proiezioni sarà presente la regista Caterina Mona.

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