Culture

Roberto Antonini, tra gatti e avventure

Va in pensione una voce storica della Rsi che ha raccontato i grandi leader, ma anche le vittime ‘comuni’ di tante guerre. Un’intervista

Con la giovane Habiba
27 agosto 2022
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«Questa è la figlia di Moshe Dayan. Ero andato a Tunisi per intervistare Arafat, in clandestinità, e me la vedo lì davanti. Si preparavano agli Accordi di Oslo». «Qui invece c’è Bassam Abu Sharif, il combattente palestinese che nel 1970 dirottò tra gli altri un volo Swissair, vedi le cicatrici sulla faccia? Un pacco bomba del Mossad». Sfogliare l’album delle fotografie di casa Antonini non è il solito affare di tramonti sfocati e torte di compleanno, anche se la curiosità dei gatti di casa – «Truffette e Morbillo» – riconduce gli umani a una più domestica normalità. Che è poi anche quella della pensione, appena cominciata dopo 37 anni di radio, informazione, cultura, interviste e viaggi in mezzo mondo al servizio della Rsi.

Da Mandela a Habiba

Anni nei quali Roberto Antonini – che continuerà a firmare commenti e approfondimenti per ‘laRegione’ come fa dal 2008 – ha incontrato una quantità esorbitante di personalità: dal presidente sudafricano Nelson Mandela («davvero umile, si affidò alla nostra segretaria perché lo aiutasse a rispondere al telefono») a Ytzhak Rabin e Shimon Peres, oltre ai cancellieri tedeschi Helmut Schmidt e Willy Brandt («un grande, prese un cacciavite e mi riparò personalmente il vecchio registratore Stellavox che si era inceppato»); la scrittrice afroamericana Toni Morrison, con «la sua autorevolezza spontanea, che esprime anche solo invitandoti a sedere»; il medievista «di un’umanità straordinaria» Jacques Le Goff. Poi ci sono «vere e proprie incarnazioni del potere», ad esempio la prima ministra pakistana Benazir Bhutto, e figure imprevedibili come lo stesso leader palestinese Yasser Arafat («una volta, dopo averlo estenuato di domande, cercai di entrare nell’ascensore con lui per fargliene un’altra che mi ero dimenticato: erano le tre di notte, mi guardò esausto e mi disse ‘Mister Antonini, enough is enough’». Ora basta, insomma, «però era incredibile come si ricordasse i nomi di tutti»).

Ma sono le persone apparentemente comuni quelle che riaffiorano con più forza. C’è il taxista che a Mosul «aveva perso tutto per una bomba – la moglie, la figlia, la casa, la macchina –, ma lo raccontava con una serenità e un fatalismo che ti fanno capire cos’è la guerra, quanto sia enorme la fortuna di essere nati in Europa e vivere in pace». Oppure Habiba, bambina hazara di Kabul rimasta ferita nell’attentato che ha ucciso cento sue compagne di scuola, che ora non può più studiare per colpa dei Talebani: «‘Perché se noi andiamo a scuola loro non possono restare al potere’, mi ha detto una volta. Si matura in fretta, in quelle condizioni». Sui volti dei molti conflitti che ha raccontato, dall’Iraq alla Siria, si trova anche la perversa lezione della guerra, «che a volte invece della vita ti toglie il futuro, ed è anche peggio».

Tra ortiche e soda caustica

Mettendo in ordine immagini e ricordi affiora pian piano, come dal bagno di sviluppo d’una pellicola, la mappa di un lungo percorso iniziato con un’infanzia in Ticino e due lauree a Parigi: Antropologia a Paris V e Storia alla Sorbona, quando già «insieme ad alcuni amici facevamo una rivista amatoriale, terzomondista, che riempiva le nostre notti e si chiamava Nord/Sud». Il ritorno in Ticino, al netto d’una breve esperienza come insegnante alle Scuole di Commercio, coincide con l’ingresso alla radio della Rsi, nel 1985. «Ho cominciato al notiziario quando il responsabile dell’informazione era Giampiero Pedrazzi, una persona onestissima morta troppo presto». Poi gli esteri, e soprattutto sette anni di corrispondenza da Washington per le reti della Svizzera italiana e della Romandia, dal 1995 al 2002. L’epoca, tra le altre cose, dello scandalo dei fondi ebraici occultati dalle banche svizzere: «Fu dagli Usa, paradossalmente, che compresi meglio la differenza tra giornalismo ticinese e romando. Quando sulla questione dei fondi preparavo commenti identici in francese e in italiano, dal Ticino capitava che mi chiedessero di smussare le stesse cose che invece dalla Svizzera francese mi costringevano a rifare, perché le ritenevano troppo blande».

Poi fu chiamato a capo dell’informazione. Sotto la sua direzione brillarono le inchieste, l’apertura internazionale, ma anche il rigore nel trattare i temi locali: lo share saliva, la qualità delle trasmissioni era elogiata da ascoltatori ed esperti. Ma a lavorare così finisce che infili le mani nelle ortiche, tanto che in mezzo ci si mise quasi subito la politica, in particolare la Lega dei Ticinesi: «Fu un’esperienza bellissima. Ma mi arrivavano pressioni dirette e indirette, dalla Corsi come dal Mattino. Contro Flavio Maspoli vinsi anche una causa: mi aveva addirittura augurato di morire bevendo la soda caustica. Nel 2007 fui ringraziato e gentilmente invitato a occuparmi di altro, lasciando l’informazione». Brutto segno per una Rsi «che però, va detto, oggi è molto più indipendente rispetto ad allora. Col senno di poi, devo anche aver peccato di arroganza: ero talmente intransigente nella difesa del nostro ruolo che forse ho trascurato i benefici della diplomazia».

Post-It persiani

Il resto lo sa anche chi sulla ‘nostra’ radio si fosse sintonizzato solo dopo: è ad Antonini e alla sua squadra che si devono reportage culturali e politici, dibattiti, approfondimenti capaci di spaziare dal Ticino al mondo in trasmissioni come ‘Millevoci’ e ‘Laser’. Sono loro – lui non vuole fare nomi «perché poi finisce che me ne dimentico qualcuno, ma li ringrazio tutti» – che ci hanno portato Zygmunt Bauman, «intellettuale senza pari, cacciato dalla Polonia in quanto ebreo e da Israele in quanto comunista». O ancora Noam Chomsky, «col quale non sempre vado d’accordo, ma di cui apprezzo l’apertura al contraddittorio».

Coraggiose sono le testimonianze di Antonini da quel Medio Oriente che è da tempo al centro dei suoi interessi, a partire soprattutto dall’Afghanistan e dal mondo persiano. Sul muro della sua cucina stanno appesi d’altronde diversi Post-It scritti in quella lingua che sta studiando da cinque anni, con sopra la traduzione: cose del tipo "sono uscito", "torno subito", anche se «un’artista femminista fuggita a Parigi non capiva neppure che lingua cercassi di parlarle, mi ha detto che il mio le sembrava più russo… ci sono rimasto un po’ così». Della storia persiana lo affascinano «i grandi mistici e i poeti come Rumi e Omar Khayyam, lo zoroastrismo, la tolleranza verso altre culture che ha contraddistinto le epoche di Ciro e Dario, e che oggi purtroppo è andata persa».

Francoamericano

Da un’altra parte della mappa troviamo l’Antonini ‘francoamericano’: francese di studi, ma soprattutto di moglie, la forte Sylvie; americano perché «gli anni a Washington sono stati una boccata d’ossigeno in quella che considero l’America più aperta e libera». Un ibrido insolito, se si pensa che molti intellettuali di formazione francofona tendono spesso all’antiamericanismo: «In effetti, ricordo lo stupore di amici come il sociologo Jean Ziegler e il leader della Quarta Internazionale Alain Krivine, che quando vennero a trovarmi a Washington si aspettavano di trovare una guerra civile tra bianchi e afroamericani… L’America ha commesso crimini enormi, come in Iraq nel 2003, e oggi rischia derive gravissime, ma spesso trovo che ci si fissi su una sua immagine piuttosto stereotipata, specie a sinistra».

È proprio parlando di sinistra che emerge come questa doppia anima renda Antonini piuttosto esotico, difficilmente assimilabile a vecchi stereotipi e impolverate ortodossie. Intanto: si ritiene di sinistra? «Sostanzialmente sì, però mi pare che ultimamente una parte di quel mondo abbia abbandonato i valori dell’illuminismo, della Rivoluzione francese, dei diritti umani. Lo vediamo con l’Ucraina, con chi cerca a tutti i costi di addossare alla Nato le colpe di un’invasione oscena, chiaramente commessa dalla Russia, per una sorta di riflesso pavloviano per cui è sempre e solo colpa degli Yankee». Ecco, forse in questo emerge anche la sua parte più francese, perché «resto convinto che la libertà non possa essere messa in secondo piano rispetto alla fratellanza e alla giustizia sociale. Mi sembra comunque che molti giovani stiano superando questa mentalità da guerra fredda, che spinge tra l’altro a rovesciare Marx: si pretende di leggere la realtà in funzione della propria ideologia, invece di svolgere un percorso inverso di critica consapevole».

Chiaroscuro ticinese

Fatto sta che non è la sinistra – quali che siano i suoi stendardi – a dominare la politica ticinese. Com’è mutato dunque il panorama, in quasi quarant’anni di mestiere? «Credo che ci sia stata un’involuzione in senso conservatore, addirittura reazionario. Lo abbiamo visto con i profughi africani e mediorientali, confinati in casermoni tra il carcere e l’immondezzaio. Più in generale si esacerba un grande difetto locale, lo dico proprio da ticinese: l’ingobbirsi in un senso di superiorità e al contempo di inferiorità. Ci sentiamo i parenti poveri di Berna, ma ne snobbiamo i ‘balivi’; riduciamo l’Italia a una macchietta, pur gravitandovi attorno dal punto di vista linguistico e culturale. Così facendo ci chiudiamo su noi stessi e rischiamo di ridurci a Neinsager, gente che dice sempre e solo di no. Eppure questo è anche un cantone di gente splendida, di intellettuali brillanti, una terra la cui ricchezza culturale è davvero notevole. Sarebbe bene lottare per riaffermare una mentalità più aperta».

Parliamo anche di Rsi. Oggi e domani, ma ricordandoci anche di ieri: «Quando ho cominciato io aveva molti più mezzi, si diceva che i giornalisti si dividessero in due categorie: quelli che ci lavoravano e quelli che sognavano di lavorarci. Anche oggi, comunque, ci troviamo ad avere possibilità che i media privati non hanno. L’importante è sfruttare questo privilegio per fare davvero servizio pubblico, per puntare su contenuti di alto livello senza scimmiottare i media privati. Temo che possa passare l’iniziativa per ridurre il canone a 200 franchi: sarebbe un disastro, che la Ssr spero sappia sventare con una campagna attiva, propositiva, non solo giocando in difesa».

Venendo infine al resto della scena mediatica ticinese, il parere di Antonini è importante anche perché dal prossimo autunno sostituirà il collega Aldo Sofia – «un punto di riferimento» – alla direzione della Scuola di giornalismo. «Mi pare che rispetto ad altre realtà locali le testate ticinesi facciano un giornalismo di buon livello. L’importante resta sempre essere rigorosi con le notizie, ma anche coraggiosi nelle opinioni, evitando certi conformismi e la scorciatoia di sostituire il contraddittorio con la compiacenza». Per questo il pensiero corre al collega de ‘laRegione’ Erminio Ferrari, «giornalista esemplare, umano, persona discreta e fin troppo umile: quando gli chiedevi di fare la dedica su un suo libro, per dire, ci metteva solo una sigla quasi invisibile. Sua è stata, tra tante altre doti, una cura impareggiabile della lingua: sicuramente porterò alla Scuola di giornalismo i suoi editoriali. Non sono uno che piange facilmente, ma quando è morto lui, così all’improvviso, non sono riuscito a trattenermi».

INCIAMPI

Cicciolina, Bush
e altre ‘toppate’

«Però mi raccomando, non vorrei passare per quello che crede di saperla più lunga degli altri. Di ‘toppate’ ne ho fatte parecchie». Antonini non vuole il monumento – noto bersaglio per le dissacranti deiezioni dei piccioni – ed essendo uno coi piedi per terra ricorda anche le vecchie cantonate: «Nel 2000, ad esempio, ero certo che avrebbe vinto il democratico Al Gore. Non avevo intuito che lo scontento dell’America bianca e conservatrice avrebbe favorito George W. Bush». Stesso errore nel 2016, con Donald Trump: «Segno che per quanto si viva negli Usa, capirli tutti è davvero difficile, almeno per me». Tra i disguidi più buffi, «quella volta che intervistai la pornostar Cicciolina, che all’epoca sedeva nel Parlamento italiano ed era membro della Commissione Difesa. Era l’epoca della crisi nei Balcani e le chiesi cosa avrebbe fatto lei: rispose che avrebbe invitato tutti a fare l’amore e non la guerra. Solo che era rimasto aperto il microfono del tecnico, il quale nel frattempo commentava ‘Ah, la g’ha rason! La g’ha propi rason!’».

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