L’intervista

Una storia privata, una storia collettiva

‘Iraqi Odyssey’, del regista Samir, verrà proiettato venerdì sera a Camedo. A colloquio con l’autore per capirne la valenza.

Il regista, autore e produttore svizzero-iracheno Samir
(© Iraqi Odyssey)
23 agosto 2022
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«Quando ho iniziato a lavorare nell’ambito cinematografico (erano gli anni Ottanta) il mio cognome veniva sempre distorto dalla critica. Quindi ho iniziato a usare solo Samir, che significa "colui che racconta storie alla tribù, di notte, attorno al fuoco"». Un nome di battesimo evocativo e significativo per il regista, autore e produttore svizzero-iracheno Samir, appunto.

L’occasione d’intervistarlo ci è data dalla proiezione del suo film documentario ‘Iraqi Odyssey’, venerdì 26 agosto, alle 20, nell’Atelier Teatro Camedo. La serata, alla quale parteciperà anche il regista, è parte della programmazione del Centovalli Festival Camedo, nonché del ‘Cinema del venerdì’.

Partiamo da asciutte note biografiche. Samir è nato a Bagdad nel Cinquantacinque. Negli anni 60 con la famiglia si trasferisce in Svizzera, Paese natio della madre, dove inizierà la scuola e si formerà alla Zürcher Hochschule der Künste (ZHdK), terminando il suo apprendistato come tipografo. Dopo aver intrapreso la formazione come cameraman, il regista inizia a girare i suoi film, siamo a metà anni Ottanta (ma lo avevamo già scritto). La sua filmografia è copiosa e conta oltre quaranta lavori, fra corti e lungometraggi, sia per il cinema sia per la tivvù. Nel 1994, con il produttore Werner Schweizer, rileva la Dschoint Ventschr Filmproduktion. Nel 2014, in settembre esce in prima mondiale ‘Iraqi Odyssey’, film-documentario presentato in numerosi festival, fra cui la Berlinale nel 2015 (sezione Panorama), il Solothurner Filmtage (2015), lo Zurich Film Festival (2014). Numerosi sono stati altresì i riconoscimenti raccolti, tenendo conto pure della nomination agli Oscar nel 2016, come miglior film straniero.

Una famiglia, tante famiglie

‘Iraqi Odyssey’ racconta la vicenda della famiglia di Samir che ha dovuto fuggire dall’Iraq – messo sottosopra da numerosi colpi di stato, bombe e governi dittatoriali, come quello di Saddam Hussein, durato oltre un ventennio – per continuare a vivere e realizzare quella visione di modernità sbocciata fra gli anni Sessanta e Settanta nella Terra dei due fiumi. Una fuga che si è diramata: da Abu Dhabi ad Auckland, da Sydney a Los Angeles e Buffalo, da Londra a Parigi, Zurigo e Mosca.

Samir, mescolando storia sociale e storia privata, racconta la diaspora di circa cinque milioni di iracheni che hanno lasciato la loro terra, dando loro una voce e un peso nella storia, con la maiuscola. "Mi sono reso conto solo in tarda età che la nostra storia familiare era rappresentativa di un’intera generazione e di un progetto: il progetto del modernismo", ha dichiarato l’autore. Rientrato da poco da un festival cinematografico in Bretagna, lo raggiungiamo al telefono, mentre è in viaggio sul treno:

Samir, un luogo comune vuole che fra gli espedienti narrativi si raccontino gli altri per raccontare sé stessi. Con questo film avviene il processo inverso: raccontando la storia della sua famiglia, testimonia la storia di un popolo. L’operazione è stata difficile?

Raccontare la storia della propria famiglia è sempre difficile; in special modo parlando di una famiglia, al suo interno, molto diversa: nel senso politico, ma anche culturale. Nonostante un ambiente molto aperto, durante la lavorazione non hanno tardato a emergere le frizioni: i dibattiti sui dettagli sono stati molto appassionati. Insomma, è stato un lavoro parecchio sensibile, in ogni suo risvolto, anche per le forti emozioni vissute. Inoltre, raccogliere le testimonianze con una videocamera in mano è più semplice a dirsi che a farsi. Un altro aspetto della sua complessità è il tempo di realizzazione: è stato il film per cui ho lavorato più a lungo, per più ragioni. Ci sono le distanze: partendo dall’Europa, ho viaggiato da Los Angeles a Mosca, Nuova Zelanda e Australia tornando in Iraq… Non vanno sottovalutate neppure le condizioni meteorologiche e stagionali, mi sono ritrovato a fronteggiare temperature di parecchio sotto allo zero in alcuni luoghi, mentre in altri si poneva il problema contrario, sfiorando i 50 gradi. Diciamo che anche fisicamente non è stata una passeggiata.

Il film si svolge in tre atti, con interviste ai componenti della sua famiglia. A questi fotogrammi intervalla frammenti d’archivio: come li ha scovati?

Questo è stato il lavoro più difficile da fare, in effetti. Molto materiale l’ho ripescato da archivi, cineteche, grandi agenzie di cinema; a Parigi, Londra, Mosca, Washington. È stata una parte del processo molto interessante, sebbene quegli archivi (definiamoli "occidentali"; ndr) custodiscano testimonianze che raccontano positivamente la storia coloniale (penso per esempio all’Imperial War Museum londinese). A Washington (archivio libero e gratuito) invece ho trovato reperti che non avrei mai immaginato di recuperare, soprattutto foto di turisti statunitensi in ferie in Iraq. Sul fronte ricerca storica, l’esperienza più triste l’ho vissuta all’Archivio nazionale di Bagdad: il direttore era molto deluso e rassegnato dai risultati della ricerca che avevo richiesto, perché i materiali storici e gli artefatti – in particolare gli audio-visivi, i vecchi film – sono andati distrutti nella guerra del 2003, oppure sono stati rubati. Alla fine, con occhi tristi, mi disse "conosci YouTube?, allora lì troverai molto!". E in effetti…

‘Iraqi Odyssey’ è anche un modo per mettere ordine nelle vicende della sua famiglia, per meglio conoscere il suo passato?

Di sicuro il film è stato un modo per ricostruire la memoria della mia famiglia e la mia visione di essa. In dieci anni, fra ricerca e riprese, ho recuperato molto più materiale e storia rispetto agli anni di infanzia e gioventù – quando andavamo in visita dai parenti –, questo anche grazie alle possibilità che il digitale e la rete hanno dato ai miei familiari, che mi hanno inviato foto e video, fra cui super8. Indubbiamente, lavorando a questo film, i rapporti con loro sono diventati più profondi. Al di là della vicenda personale, poi, presentando il documentario in diversi festival, molte persone alla fine della proiezione mi hanno detto di aver rivissuto la loro storia. Da quest’esperienza, ho compreso che la narrazione che ho ricostituito, in qualche maniera, è la costruzione della testimonianza di una classe media irachena moderna e globale; ho capito che nella storia del colonialismo noi siamo soggetti e attori di un movimento storico.

Il concetto di memoria…

Senza una riflessione continua sulla storia umana, non è possibile discutere di futuro, di immaginarlo. Senza conoscere il proprio passato, non è possibile costruire il proprio avvenire.

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