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Metti un Dio fra quattro mura

Fra architettura e teologia ci vorrebbe una simbiosi, per nulla facile da sviluppare. Un convegno ne traccia problematiche e obiettivi

Dalla chiesa del Monte Tamaro
(Ti-Press)
28 aprile 2022
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Se Antoine de Saint-Exupéry fosse ancora in vita il suo aforisma – chi progetta sa di aver raggiunto la perfezione non quando non ha più nulla da aggiungere ma quando non gli resta più niente da togliere – avrebbe potuto benissimo trasformarsi nello slogan del convegno che si tiene venerdì 29 aprile alla Facoltà di teologia di Lugano. "Costruire una chiesa – si legge infatti nella presentazione – è sempre stato uno dei compiti più difficili per un architetto, per ciò che essa significa, per la realtà così speciale, unica, trascendente, che essa è chiamata ad accogliere e a manifestare. Tale compito si è fatto ancora più arduo nella nostra epoca, dominata dalla secolarizzazione e quindi con una crescente difficoltà a comprendere il senso della trascendenza, oltre al fatto di aver abbandonato i diversi stili dell’arte sacra, affermatisi nel corso dei secoli". La centralità che le chiese, e soprattutto le cattedrali, occupavano nei centri urbani dei secoli scorsi – evidenziano i promotori – "sta progressivamente scomparendo; esse rimangono tutt’al più come memorie o come servizi. Siamo in una società in cui vengono sempre più a mancare i punti di riferimento, dissolvendosi tutto in una sorta di liquidità. Ciò che sembra mantenere importanza è l’apparire e il consumare. Una ‘società liquida’, come la chiamò il filosofo polacco Zygmunt Bauman, in cui domina la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e l’incertezza è l’unica certezza".

Sfida estrema fra fede e cemento

Parlerà dunque di muri, nel vero senso della parola, e di fede il pomeriggio (l‘avvio dei lavori è previsto alle 15 nella sala multiuso) intitolato ‘Architettura & teologia nella costruzione di chiese’. Fra gli ospiti spicca Mario Botta, colui che ha messo la firma su decine di progetti realizzati in tutto il mondo, dai musei alle abitazioni private, dagli istituti di credito ai casinò. È però negli edifici di culto, come ha spiegato in un’intervista di qualche anno fa, dove l’architetto ticinese ha "individuato le radici profonde e i limiti dell’architettura". Uno studio che lo ha portato proprio in questi giorni, e fino al 4 settembre, ad allestire al Maxxi di Roma una sua mostra denominata ’Sacro e profano’. Come affrontare quindi questa ‘sfida estrema’ del divino? «Costruire una chiesa è sempre stato uno dei compiti più gratificanti, nel senso che è una sfida estrema perché si confronta, nella maggior parte dei casi, con una storia che va al di là della vita dell’architetto stesso – risponde ai nostri interrogativi... terreni –. Oggi la perdita della centralità della chiesa, come edificio, corrisponde anche alla perdita della centralità delle istituzioni civili (governo, teatro, biblioteca ecc)». Non così ovunque, però. Proprio in un’Ucraina martoriata Botta sta costruendo una chiesa: «La guerra non ha fermato il progetto. Anzi, la gente della periferia di Leopoli vuole che si continui. Ho avuto conferma dell’impegno e della generosità che questa povera gente ha manifestato, donando, proprio nelle ultime settimane, quel poco di prezioso (oro e gioielli) che avevano conservato per tutta la loro vita. Una lezione di etica dalla quale dobbiamo solo imparare».

Tra chiese e cappelle, l‘archistar (lo chiamiamo così anche se lui non ama molto questo termine) ne ha realizzate una quindicina, con anche una sinagoga e una moschea in costruzione: «Nel mio cuore c’è posto per tutte ma, come per i propri figli, forse il primo è quello ‘prediletto’, per me quindi la chiesa di Mogno». Ma come fa un ‘professionista del concreto’ ad avvicinarsi al trascendentale, o meglio come si prepara nell’avvio di un progetto di un edificio religioso? «Riconoscendo come la sacralità risieda innanzitutto nel principio stesso del costruire: trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura. Quando sono incaricato della costruzione di una chiesa penso prima di tutto a come interpretare bene il contesto (non esiste una chiesa in astratto) e il tempo storico che deve rappresentare. Per questo al convegno porterà soprattutto la consapevolezza che l’architettura – anche quella del sacro – è sempre testimone del proprio tempo storico. Pensiamo attraverso i secoli le differenti forme artistiche che hanno caratterizzato la loro immagine: Romanico, Rinascimento, Barocco, Ottocento, Moderno e Contemporaneo. Quindi mi domando se le conquiste delle avanguardie artistiche della cultura contemporanea e della cultura tecnologica siano state accolte e interpretate alla luce delle nuove difficoltà (problemi energetici, ambientali, climatici ecc.). Resta nel subconscio – per la mia generazione – come potrà essere uno spazio di preghiera dopo Picasso...».

La meraviglia di un edificio religioso

C’è poi la meraviglia. A individuare questo sostantivo in grado di riassumere il dibattito fra architettura e teologia è don Arturo Cattaneo, sacerdote, architetto e docente alla Facoltà di teologia, che interverrà nel convegno – oltre a Mario Botta – con Andrea Longhi (Costruzione di chiese come storie di comunità), Ralf van Bühren (Tendenze nella costruzione di chiese nel XX e XXI secolo) e Paolo Zermani (L’architettura della chiesa nel tempo dei mercanti). «La chiesa è un edificio così speciale che dovrebbe suscitare uno stupore nei fedeli che vi entrano o in chi l’ammira dal di fuori – fa notare don Cattaneo –. Se Dio, come dice papa Francesco, ci sorprende sempre, lo spazio sacro dovrebbe riflettere questa sorpresa, come quando si entra nel Duomo di Milano o a Notre-Dame di Parigi». Ma come fare affinché una chiesa susciti tutto questo? «Una sfida tanto interessante quanto difficile. Il punto principale è che la chiesa non è un edificio come tanti altri; accoglie una realtà che in un certo senso ci supera, una realtà sì umana ma anche trascendente. Per questo comprendo l’imbarazzo di molti architetti che, non essendo esperti di teologia, si trovano in grande difficoltà a tradurla architettonicamente. Una realtà che richiede inoltre una particolare bellezza. Ma quale ‘bellezza’ può essere adeguata per una realtà simile? Dall’altra parte, per i teologi, che hanno poca dimestichezza con il mondo dell’architettura e con quello dell’arte, è altrettanto difficile orientare architetti e artisti. Fra architettura e teologia ci vorrebbe una simbiosi, per nulla facile da sviluppare».

Un’altra questione aperta porta ai diversi stili architettonici susseguitisi nel tempo. E adesso cosa succede? «Con l’avvento del cemento armato, nel Ventesimo secolo, si sono abbandonati quegli stili (romanico, gotico, barocco...). Oggi l’architetto è tentato di cercare l’originalità, causando spesso tra i fedeli un certo disorientamento. La Chiesa ha sempre cercato di valorizzare le varie espressioni della tradizione, così nell’ambito liturgico, musicale o pittorico. Ci si potrebbe chiedere come valorizzare anche elementi della tradizione architettonica. Certamente reinterpretandoli in modo inedito. Va anche osservato che siamo passati da chiese con una sovrabbondanza di immagini e sculture, a chiese con pareti bianche, spoglie, magari solo con una croce. Si è giustamente detto che in tal modo si è ristabilita la centralità dell’altare. Mi domando se non si è passati da un estremo all’altro. In fondo le immagini e le vetrate avevano anche un valore pedagogico. Capisco che, oltre alle difficoltà menzionate, ci sono anche quelle economiche per cui è così difficile costruire oggi chiese stupefacenti e con una bellezza adeguata alla realtà che contengono. È una grande sfida di fronte alla quale la Chiesa non deve arrendersi».

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