Vision du Réel

Il bisogno dell’acqua al Festival di Nyon

Elemento primario di ‘Lʼîlot!’ di Tizian Büchi, ‘Dogwatch – Vardia’ di Gregoris Rentis e ‘Tara’ di Volker Sattel e Francesca Bertin.

Da ‘Tara’, di Volker Sattel e Francesca Bertin
13 aprile 2022
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Noi siamo animali terreni, ma molto del nostro vivere, se non tutto, ha che fare con l’acqua. In modi e punti di vista diversi lo hanno raccontato in questi giorni a Nyon durante il Festival Visions du Réel almeno tre film nel concorso lungometraggi: lo svizzero ‘Lʼîlot’ di Tizian Büchi, il greco ‘DogwatchVardia’ di Gregoris Rentis e l’italo-tedesco ‘Tara‘ di Volker Sattel e Francesca Bertin. Tre film lontani narrativamente e anche come capacità di emozionare, eppure tutti necessari per riuscire nell’improba impresa di renderci coscienti della realtà del tempo che viviamo, che non può essere risolta con la guerra in Ucraina, con il Campionato del mondo di polo femminile in svolgimento in Argentina, con le elezioni in Francia. Certo l’acqua è un tema basilare, per il mistero che ancora avvolge il nostro debito ancestrale, sul bisogno che ne abbiamo per i traffici commerciali, sulla ricreazione che ci regala, sull’inquinamento che noi alle acque doniamo, sulla loro vitale importanza. Gagarin lo aveva per primo notato, in quell’aprile del 1961, siamo un pianeta azzurro. Ma quanto ce ne importa?

Ne ‘Lʼîlot!’, Tizian Büchi ci porta a Losanna, sulle rive di uno dei fiumi che andranno a tuffarsi nel lago, un quasi isolotto misterioso vive nei pressi di un gruppo di abitazioni periferiche abitate per lo più da immigrati. Qui incontriamo due uomini destinati a controllare il luogo, a impedire a estranei di violarlo, a offrire sicurezza agli abitanti di un luogo dove i giovani per sentire rumore scoppiano palloncini appena riempiti d’aria. Uno è un immigrato angolano portoghese di colore, che ha vissuto la guerra d’indipendenza del suo Paese; l’altro è un iracheno in cerca di una moglie vergine da chiudere in casa a fare figli. Gli è andata male nel suo Paese e ora vede il tempo passare inesorabile. Creano barriere intorno al fiume per evitare che i giovani scoppino mortaretti e che coppie d’innamorati sventurati finiscano annegati. Il film ci trascina in un pavido mondo dove il mistero dell’acqua regala l’unico brivido per sentirsi vivi, in una società che si è autoesclusa alla vita, regalandosi la solitudine, in nome della sicurezza.

Acqua lontana eppure presentissima in ‘Dogwatch – Vardia’, film in cui il regista, Gregoris Rentis, come un buon entomologo ci mostra il destino di mercenari privati restati senza lavoro perché assunti fino a poco tempo fa per difendere le navi da carico che attraversavano l’area ad alto rischio sulla costa somala. Visto che al giorno d’oggi gli attacchi sono diminuiti, i mercenari incontrano un nuovo problema: la mancanza di azione. Lo stesso devono tenersi in allenamento quotidiano per affrontare un nemico inesistente. Una situazione assurda, una sfida per Rentis il farci sentire partecipi del dramma di un gruppo di mercenari, ma l’interesse del film si sposta sulle scelte militariste di questo gruppo di persone che non sono impiegati normali, ma persone che ogni giorno si allenano per uccidere, che non si pongono problemi morali su chi saranno le loro vittime. E guardando il film si pensa all’oggi, in Yemen, in tante parti d’Africa, in Ucraina, dove i loro fratelli mercenari operano, dopo essersi allenati come loro. Certo, basta essere pagati, ma non ditemi che è un lavoro l’uccidere a contratto. Anche per proteggere un carico. Con freddezza, venata forse di simpatia, il regista racconta questa algida storia all’ombra della morte.

Il terzo film in concorso ci porta in Italia a Taranto. Si tratta di ‘Tara’ dei documentaristi Volker Sattel e Francesca Bertin. Il titolo si riferisce al Tara, un corto e importante fiume di Taranto stranamente sfuggito all’inquinamento della città siderurgica, ma ora sofferente di abbandono e degrado ambientale. Interessante la storia del fiume che ancora oggi è frequentato da tarantini che credono che le acque abbiano proprietà curative. Addirittura, si racconta che contadini e fattori usavano portare qui i cavalli azzoppati perché guarissero. Il fiume è un pretesto per scoprire il dramma di una città sospesa tra la fine di un’epoca industriale segnata da un folle inquinamento e un futuro di degrado umano e ambientale dovuto alla fine di un’economia e al nero futuro di disoccupazione. Questo film è una terribile disamina del fallimento di un’idea chiamata ‘progresso’, e si resta angosciati di fronte a un vecchio documentario che il film ingloba, dove si vedono espiantare millenari ulivi e cancellare con le mine millenni di storia per offrire una pianura alla costruzione della mostruosa acciaieria. E oggi cos’è cambiato? Nulla. Nel mondo ovunque si distruggono foreste e, peggio, si consumano ghiacciai ancora nel nome del ‘progresso’. Ne vale la pena? È quello che ci chiede questo film.

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