Libri

Gentile Professore… Caro Zeri

‘Lettere di Roberto Longhi e Federico Zeri (1946-1965)’: il carteggio tra i due massimi storici novecenteschi dell’arte presentato sabato al Lac

Lettere di Roberto Longhi e Federico Zeri (1946-1965). Esce, per le cure di Mauro Natale, il carteggio tra i due massimi storici novecenteschi dell’arte, che sarà presentato al Lac di Lugano domani, sabato, alle 11 da Howard Burns, Massimo Danzi e Mauro Natale.

Anticipiamo qui parte della presentazione di Massimo Danzi, professore all’Università di Ginevra.

Quando si incontrano, a Roma nel 1946, Longhi ha quasi sessant’anni, Zeri ne ha venticinque, si è laureato con Pietro Toesca sul pittore manierista Jacopino del Conte e ha iniziato il perfezionamento con Adolfo Venturi, titolare della prima cattedra di storia dell’arte istituita in Italia nel 1901. Inteso alla salvaguardia del patrimonio artistico nazionale, l’insegnamento di Venturi è per Zeri in qualche modo il completamento della scuola filologica di Toesca. Così non meraviglia che nel 1946, trentacinquenne, entri alla Soprintendenza dove resterà per un decennio. Longhi è, quest’altezza, studioso noto a livello internazionale con saggi sulla pittura di Piero della Francesca (1927), sui pittori ferraresi (Officina ferrarese esce nel 1934) e su Masolino e Masaccio (1940). Caravaggio arriverà solo nel 1952 e comporterà la scoperta di un secolo fino ad allora non amato. Sono gli anni della mostra di Serodine a Brissago, e la rivalutazione del barocco tocca anche casa nostra.

Nel frattempo, Longhi si è lasciato dietro l’insegnamento di Croce, di cui ha letto l’Estetica con assoluta adesione ma di cui scopre lo scarso interesse per l’opera nella sua concretezza ed ha esaurito anche l’esperienza più letteraria su ‘La Voce’ di Prezzolini, rivista fiorentina di battaglia politica e culturale che gli sembra allinearsi troppo al pensiero di Croce e di Gentile.

Nel 1912, a Firenze, avviene l’incontro con Bernard Berenson, ricco e colto storico americano dell’arte italiana dalle frequentazioni internazionali (la sorella della moglie ha sposato Bertrand Russel e un’altra un esponente del gruppo di Bloomsbury). I suoi studi sul Rinascimento italiano, i Venetian, Florentine, Central and North Italian Painters of the Renaissance, usciti nel 1894, sono già dei classici. La sua critica, che s’affida a un occhio straordinariamente educato e a una memoria visiva eccezionale nel riconoscere gli autori, pare a Longhi “la prima che si possa chiamar pittorica o figurativa, dopo Vasari” (lettera a Berenson del 4 settembre 1912). Anni dopo, l’Indice che Berenson aggiunge ai saggi (1934), sarà una palestra per gli storici del Rinascimento italiano. Ci faranno i conti anche Longhi e, più tardi, Zeri, a volte con qualche irritazione e competizione se il primo ne parlerà come di “quel nuovo orario delle ferrovie artistiche italiane che molti, per poltroneria mentale, tengono per vangelo”. Ma l’ammirazione di entrambi per il ‘conoscitore’ americano, che accompagna la millionaria americana Isabella Stewart Gardner nella costituzione della prima e più importante collezione d’arte italiana degli Stati Uniti (dal 1924 Museo Steward Gardner a Boston) resta grande e ancora nel 1961 Zeri gli dedicherà il suo Due dipinti, la filologia e un nome. Berenson è, in quei decenni, la storia dell’arte italiana con Toesca e Venturi (nell’azzeccata formula di Cesare Garboli “la filologia del Toesca, lo storicismo del Venturi, l’occhio del Berenson”) e Longhi, come più tardi Zeri ne seguiranno le tracce, sedotti da una pratica attribuzionista a base unicamente stilistica che rinvia alla tradizione di ‘conoscitori’ come Cavalcaselle e Giovanni Morelli.

L’approccio di Longhi a Berenson è entusiastico. Poco più che ventenne, si propone come traduttore dei saggi e ne incassa l’accordo. Ma capisce presto di non esserne all’altezza e trascina la cosa per un decennio senza arrivare a nulla. Troppo scarso, riconoscerà anni dopo, il suo inglese e non adatto alla lingua di Berenson il suo italiano, infarcito di arcaismi ed espressionismi. La relazione fra i due s’increspa e cala un silenzio di quarant’anni. La considerazione per il conoscitore sopravvive, come sopravviverà in Zeri, ma con un misto di fastidio per l’autorità che lo storico americano esercita sull’arte italiana. E, alla fine, sarà Emilio Cecchi a rimediare alla mancata traduzione, pubblicando la sua da Hoepli nel 1936.

La corrispondenza Zeri-Longhi, che ora Mauro Natale pubblica accompagnandola con uno straordinario commento che chiarisce quasi tutto (personaggi e ruoli, vicende delle opere e storia delle attribuzioni fino ai nostri tempi, ma soprattutto il grande tenace impegno di Zeri nella salvaguardia del patrimonio artistico nazionale) inizia dieci anni dopo e si distende dal 1946 al 1965. Sullo sfondo c’è un paese che sta risollevandosi dal lungo conflitto. Sono quasi 350 lettere, di gran lunga e in assoluto il carteggio più importante per entrambi. Sul fronte che occupa i due storici, la situazione è disastrosa per le perdite inflitte dalla guerra al patrimonio artistico, per lo smembramento di intere collezioni e per l’incuria in cui versano quelle poche che sono sopravvissute integre. Solo a Roma, migliaia di opere sono state inviate nei luoghi più discosti e non risultano all’appello. Sono nascoste, perse o finite in casa di qualche ex gerarca o alto impiegato dei vari Ministeri della Educazione Nazionale che dal governo Mussolini arrivano a Badoglio. È il caso della Galleria Spada, della Galleria Pallavicini, della Doria Pamphilj o ancora della collezione Colonna a Sant’Apostoli. Negli anni confusi della guerra, la dispersione non ha mancato di beneficiare la casta fascista, ora in disgrazia, e a casa Badoglio ci sono almeno quattro quadri antichi che Zeri individua. Dall’inizio, la sua attività alla Soprintendenza è frenetica: percorre l’Italia alla ricerca di opere che pensa di ritrovare o che gli sono segnalate, inizia a riordinare il Gabinetto fotografico nazionale, ricostruisce il patrimonio della Galleria Spada e della Pallavicini dandone i cataloghi, pensa di fare lo stesso con la Galleria Colonna ma si deve ricredere. Partecipa alla politica di catalogazione del patrimonio artistico.

Le lettere permettono di seguirne quasi giorno per giorno lo sforzo di ricostituzione delle istituzioni come delle opere smembrate e lo strenuo esercizio di “filologia ricostruttiva” cui si applica pare quasi un emblema della più vasta ricostruzione postbellica che impegna il paese. In questo contesto, il rapporto con Longhi arriva al momento giusto. I due discutono quasi a ogni lettera ritrovamenti di opere, riconoscimenti e attribuzioni che chiamano in causa pittori di regioni studiate (e autori come Mantegna, i Bellini, Michelangelo, Raffaello, Caravaggio) o meno esplorate come la fascia adriatica o l’alto Lazio.

Uno degli aspetti di questa politica di salvaguardia che affiora dalle lettere è il rapporto con i restauratori, la cui formazione è in genere scarsa rispetto alle esigenze. Nel 1940, il fascismo aveva creato a Roma l’Istituto Centrale del Restauro, alla cui progettazione Longhi aveva partecipato insieme ad Argan, e aveva chiamato a dirigerlo il critico d’arte Cesare Brandi. Con lui, i rapporti di Zeri si fanno presto difficili: denuncia la gestione Brandi, accusa di incompetenza i restauratori per aver arrecato danni gravissimi alle opere, che documenta nelle sfere alte; cerca le dimissioni di Brandi, sostenuto da intellettuali come Concetto Marchesi o dallo stesso Longhi, che trova forse così il modo di sdoganare la sua partecipazione al regime. Ancora nel 1973, prefando la Storia del Restauro di un suo brillantissimo allievo, Alessandro Conti, Longhi annoterà: “Purtroppo la storia dei restauri è storia di pochi profitti e di enormi danni; e in una statistica che graduasse le cagioni della perdita delle opere d’arte attraverso i tempi, dopo l’usura dei secoli coi suoi cataclismi, le guerre e l’iconoclastia, il restauro verrebbe buon quarto”. L’elenco dei quadri rovinati nei restauri affiora, dopo il 1947, quasi in ogni lettera, ma la battaglia per le dimissioni di Brandi non raggiungerà l’obiettivo. Zeri tenterà allora, senza riuscirci, la carriera accademica. In lui l’avversione per l’accademia cresce proprio mentre aumenta la sua renommée di studioso. I musei americani e inglesi più prestigiosi se ne accaparrano la curatela e le expertises e la sua carriera, difficile in Italia, si fa libera e internazionale. Mauro Natale, che conosce lo stato della documentazione come nessun altro, segnala centinaia di lettere sue con i grandi musei americani e inglesi, che raccolgono i suoi giudizi e attribuzioni.

Nascono così alcuni degli studi suoi più noti, che accompagnano ricerche tese a dare una fisionomia ad autori sconosciuti e a collocarne le opere. La vicenda delle Tavole Barberini, opere del secondo Quattrocento che nel 1935 hanno lasciato Roma per approdare al Metropolitan di New York e alla National Gallerie di Washington, si fissa nel libro intitolato Due dipinti, la filologia e un nome del 1961. Zeri riprende la ricerca che era stata di Richard Offner, il massimo conoscitore americano di arte italiana, ripercorre il cammino del “Maestro delle Tavole Barberini”, gli attribuisce altre opere e vi riconosce l’influsso degli affreschi di Domenico Veneziano a Perugia e della maniera fiorentina di Filippo Lippi. Ma trova anche i segni di un’origine inequivocabilmente marchigiana, che l’itineranza del pittore ha aggiornato sì ma non cancellato. E il “Maestro delle Tavole Barberini” acquista un nome e un’identità: si tratta di un oscuro “pittore senza opere” di Camerino, centro – riconosce Zeri – di una notevole scuola pittorica prima che la cultura della corte urbinate ne eclissasse la storia.

Non è che una delle avventure che queste lettere raccontano. Il carteggio ci permette di assistere alla fase aurorale di miriadi di ritrovamenti e attribuzioni che costellano il lavoro del grande storico dell’arte. Le quotidiane discussioni con Longhi si fisseranno in contributi scientifici che fanno la storia della disciplina e di una scuola; e anche per queste la guida sicura e informatissima di Mauro Natale ci orienta, ricostruendo il dibattito intorno alle opere fino ai nostri giorni. Nel carteggio c’è spazio, anche, per gli umori di Zeri a fronte del suo più distaccato maestro, per il suo linguaggio tagliente quando non apertamente aggressivo nei confronti di colleghi giudicati mediocri. Ma farebbe torto al grande storico chi approfittasse delle idiosincrasie consegnate a lettere private per attenuarne la personalità di studioso, quale appare intera in questo ventennale dialogo con il Maestro.


Massimo Danzi, professore all’Università di Ginevra

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE