Culture

Aurelio Galfetti, il ricordo di Nicola Navone

Il vicedirettore dell’Archivio del Moderno ricorda l’architetto ticinese scomparso domenica sera

Aurelio Galfetti di fronte alla Nuova Villa Ortensia dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale
6 dicembre 2021
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Domenica sera è mancato Aurelio Galfetti, fra i maggiori architetti svizzeri ed europei, fondatore con Mario Botta dell’Accademia di architettura di Mendrisio e suo primo direttore dal 1996 al 2001. Scrivere, nel momento dell’estremo congedo, di un Maestro a cui si è legati da un profondo vincolo di affetto e riconoscenza, è un compito difficile e doloroso, ma al tempo stesso necessario. Perché Aurelio Galfetti, “Lio” per familiari e amici, è stata una figura cruciale per molti architetti della mia generazione, che riconoscevano in lui non soltanto un Maestro, ma un uomo generoso e partecipe: una sorta di figura paterna per l’autorevolezza che si era guadagnato a dispetto del suo understatement, anzi proprio per la sua umanità e attenzione alle persone, nel momento stesso in cui sapeva affermare le proprie idee e convinzioni senza sconti né compiacenze. Un Maestro che ha sempre guardato la realtà, il flusso incessante delle cose del mondo, senza nostalgie o rimpianti, accettando il cambiamento e cercando (senza scadere nell’ottimismo incosciente, ma sempre coltivando l’ottimismo della volontà) di cogliere ciò che di buono vi poteva essere.

Nato il 2 aprile 1936, Aurelio Galfetti aveva conseguito la laurea di architetto nel 1960 al Politecnico di Zurigo sotto la guida di Paul Waltenspühl. Le sue prime opere (la Casa dei bambini di Biasca, realizzata con Ivo Trümpy e Fredi Ehrat, e la celebre casa progettata a Bellinzona per Plinio Rotalinti) manifestano da un lato la sua appassionata adesione alla poetica lecorbusiana, dall’altro la capacità di declinarla in modo originale attorno a quelli che diverranno due capisaldi della sua architettura: il progetto dello spazio, inteso come momento di sintesi fra le risposte sollecitate dal luogo e dal tema, e il progetto dei percorsi, inteso quale strumento per esperire la spazialità interna e per costruire la percezione del paesaggio, inscenato dalla sapiente regia dell’architetto.

Nel 1962 prende avvio il sodalizio con Flora Ruchat-Roncati e Ivo Trümpy: una collaborazione che fiorisce da una salda amicizia, resa ancora più forte dalla morte prematura di André Ruchat, marito di Flora e l’amico più caro di Lio; un sodalizio nel quale vita e lavoro s’intrecciano indissolubilmente e che si vena, fin da subito, di una mai sopita passione civile, incardinata anzitutto, diceva Galfetti, al “valore deontologico del fare, del rispetto della disciplina” che conferiscono un tratto politico alla propria azione e a cui è necessario attenersi, anche a costo di sacrifici, per “fare fino in fondo il nostro mestiere”. Da quella collaborazione sono nate opere come le scuole e l’asilo di Riva San Vitale (1961-1973), l’asilo di Viganello (1965-1970) e quel capolavoro che è il Bagno di Bellinzona (1967-1970), vero e proprio incunabolo della concezione “territoriale” dell’architettura, che a partire dagli anni Ottanta assumerà un ruolo centrale nell’opera di Galfetti e si rifletterà nell’impostazione didattica e nell’insegnamento impartito all’Accademia di architettura.

Dopo un decennio caratterizzato da un profondo ripensamento della propria architettura, che segue la fine del sodalizio con Ruchat-Roncati e Trümpy (e a cui tuttavia risalgono progetti notevoli, come quello – non realizzato – per Casa Wenger a Carona), l’opera di Galfetti conosce una nuova fase, manifestata ad esempio dal restauro del Castelgrande (1981-2000). Bellinzona, dove nel frattempo ha trasferito il proprio studio, diverrà l’epicentro della sua attività, che si sostanzia in numerosi edifici urbani e inizia a varcare i confini del cantone, attraverso concorsi o mandati internazionali, a cui fa riscontro un sempre maggiore riconoscimento da parte della critica, non solo svizzera. Sono gli anni che preludono alla fondazione dell’Accademia di architettura, a cui dedicherà, di concerto con Mario Botta, grandi energie, come primo direttore, come professore di progettazione, come direttore dal 2005 al 2007 del Master di Studi avanzati in architettura e urbanistica, come presidente della Commissione di diploma. Un periodo che coincide, in larga misura, con il contributo offerto alla progettazione di Alptransit, nella quale si condensa la sua ricerca sul rapporto tra architettura e territorio, declinata anche in altri progetti infrastrutturali, e che, passando per quell’altro capolavoro che è la casa costruita, per sé e i propri cari, sull’isola di Paros, giunge sino alle opere più recenti, come la nuova sede dell’Istituto di Ricerca in Biomedicina, inaugurata solo pochi giorni fa. Un’opera, quella di Galfetti, vasta e profonda, che qui si può solo compendiare e che sarà compito della ricerca storica, avviata da tempo grazie alla donazione del proprio archivio professionale all’Archivio del Moderno dell’Università della Svizzera italiana, mettere in luce come merita.

Parlando della costellazione di talenti che avevano rinnovato l’architettura ticinese proiettandola al centro dell’attenzione internazionale, Galfetti disse che “la fortuna si era accomodata, per un momento, nel Ticino”: una considerazione saggia, che manifesta anche l’irripetibilità di quella stagione e, al tempo stesso, dei suoi protagonisti. Di certo, manifesta il valore di un uomo nel quale intelligenza, generosità e bontà d’animo erano riunite in una altrettanto irripetibile costellazione, che continuerà a spandere la sua luce e a guidare i nostri passi nell’ombra greve di questo fragile domani.

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