Culture

Microcosmi: Alek, l’isola, l’eternità

Un’artista, un corpo che diventa un campo di battaglia, la liberazione dal tempo

29 ottobre 2021
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Sono mutevoli gli odori del mare, le sostanze alimentano il litorale in un’incessante migrazione di uccelli, venti da nord e sud, piogge e calure estive. Frequente è camminare cercando di rendere nostro un po’ di orizzonte, sfuggente e consegnato ai naviganti di ogni età e forse neanche a loro. Adesso, stiamo su uno scoglio guardando avanti senza nessun fine, parti di un piccolo universo. “Molti posti lungo la riva del mare hanno un odore particolare che ricordiamo e sappiamo riconoscere: là dove le onde hanno strappato l’erba dal fondo per farlo sbriciolare; là dove le alghe si sono seccate sulle pietre e le caverne; il mare nel porto o sul molo, sul fondo della barca o della nave, nella sassola o nella stiva; nelle pozzanghere che restano dopo il passaggio delle ondate e della bufera, mescolato all’acqua piovana”. Così, Predrag Matvejević, nel suo ‘Mediterraneo’, definito da Claudio Magris, “racconto che fa parlare la realtà”. Nello sguardo di Matvejević c’è l’idea di contemplazione e vastità, proprio come una autentica navigazione per cui fatichiamo a capire chi arriva e chi parte e non ci viene incontro una risposta se una nave è ferma nel porto; è attraccata da poco o sta per lasciarlo? E le isole? Sono risonanze, frammenti dove l’eco del mare è altro dalla terraferma, quello che Tomas Tranströmer dice “il secco sussurro/di grandi porte che si aprono e grandi porte che si chiudono”, un profondo a cui non possiamo venire meno tanto è in noi, tuttavia non svelato appieno, fatto di presenza e assenza. E attesa.

Alek, l’isola

Di attesa, parla una delle fotografie presenti a Casa Pessina, Ligornetto, se ci fermiamo un momento sul volto di Alek Lindus ritratta da un’amica nel settembre 2018. Occhiali scuri, mano sinistra sotto la destra che sorregge il volto, sguardo che non sembra avere un punto preciso dove fermarsi. ‘Last Works’, il titolo della mostra visitabile fino al prossimo 7 novembre, inserita nella ‘Biennale dell’immagine’.

Sull’isola greca di Samos, dopo aver trascorso a Parigi, Londra, Bruxelles, parte della sua vita, Alek insieme al marito, ai suoi cani Perri e Nefeli e agli amici, compie un’esplorazione; scopre luoghi, ritrae, scrive. Scultrice e pittrice, l’artista apre alla fotografia, lasciando la macchina digitale per la Polaroid. “Aveva imparato – scrive nella brochure a lei dedicata il direttore del Museo d’arte di Mendrisio, Simone Soldini – a manipolare la pellicola inserendo tra la velina e il supporto una foglia d’oro, a trasformare il positivo in negativo; insomma, a esaltarne l’aspetto di pura artificialità”. Un tono, prosegue Soldini, “crepuscolare, nostalgico, struggente”. Osserviamo questa serialità vegetale al modo di chi coglie nel suo sviluppo uno stato di purezza e infine di sospensione del tempo; fotografie, quasi miniature che portano a un altrove ‘relativamente a sé’, cosa che richiama il segno, le parole per dire. Accanto a questo percorso, su un’altra parete si apre per contrasto un’allegoria fotografica che parla di oscurità e ferite; il corpo di Alek, torsi, autoritratti senza volto che mettono in essere un confronto serrato tra l’artista e la morte (nel 2013, le viene diagnosticato un tumore). Un linguaggio che tiene in gioco vita e storia, uscendo a tratti da quel tunnel, rovesciando fino a quando possibile le forze in campo, ricorrendo anche all’ironia.

Fiori, tarocchi, una pistola, dei lacci. Incontro la collaboratrice scientifica del Museo d’arte di Mendrisio, Barbara Paltenghi Malacrida, che ha curato la mostra. “Questa mostra può sembrare a un primo approccio incongruente, dicotomica. Hai una parete estatica di una bellezza unica, una magia. Poi, scopro che nello stesso anno della serie dorata Alek Lindus ha ritratto sé stessa, un corpo che diventa un campo di battaglia sofferente. La donna Lindus, nel momento di testimoniare la sua uscita dalla vita continua ad avere bisogno di nutrirsi della bellezza”. I lavori precedenti cosa trasmettono? E quel primo piano con il volto trasfigurato? “Lei ha lavorato sempre sulla sua mimesi. Con il marito indossano delle maschere di animali in una forma sarcastica, dissimulando: la foto che ricordi mi porta a Meret Oppenheim. C’è sempre la trasfigurazione della donna. Aveva una bellezza folgorante e non l’ha mai messa a disposizione della sua fotografia: lo fa alla fine tagliando la sua testa e mettendo in evidenza il petto, la parte malata. È la resa in immagini di un confronto con la morte a cui sembra dire, vieni, prendimi. Le mani ossute, la ferita”. La Polaroid? “L’ha usata ragionando sulle distanze e sulle sovraesposizioni, anche se vedo un minimo di post produzione cromatica”. Simone Soldini nella sua introduzione alla mostra ha parlato di penombra. “Il marito riconosceva ad Alek un tratto di nichilismo. A lei interessa il dark side, lo vedi anche da altre fotografie, cupe, dove il nero prevale. Aveva piena coscienza della sua morte, non esorcizzava, ma aveva un lato sarcastico e nella resa questo si vede”.

L’eternità

Tornando alla foto scattata dall’amica di Alek, quello sguardo intenso sembra arrivare a una liberazione dal tempo, Chronos, una condizione dove il presente tiene a sé passato e futuro, uscendo da una barriera. Theo Angelopoulos, crea con l’apporto di Tonino Guerra e Petros Markaris, insieme alla splendida fotografia di Yorgos Arvanitis, una parabola sul distacco e insieme sulla ricorsività dei sentimenti. In ‘L’eternità e un giorno’, premiato a Cannes nel 1998, Alexandros, scrittore, sta lasciando la sua casa per essere ricoverato in una clinica, forse per sempre. Casualmente trova una lettera scritta dalla moglie Anna, morta diversi anni prima, che gli ricorda una giornata d’estate passata insieme; “ti scrivo, davanti a me c’è il mare…”.

Qui, inizia il viaggio del poeta a ritroso, in un vissuto fortemente ancorato al presente. Si tratta del suo incontro con un bambino albanese che pulisce i vetri della macchina a un semaforo. Uno dei tanti bambini sfruttati, che vivono la strada. Vediamo una Salonicco piovosa, livida, i due che l’attraversano; per contro, il ricordo di quella giornata di trent’anni prima si materializza sul mare, tra canti e danze. Alexandros e Anna si stringono nuovamente nella musica, altri personaggi si muovono accanto. Così, a un certo punto lei si distacca da lui che chiede: “Anna, quanto dura il domani?”. E la risposta, è: “L’eternità e un giorno”. Si concentra in un giorno l’eternità, quando ci ridestiamo nel divenire della vita. Nelle opere di Alek Lindus la penombra lascia spazio al suo sogno fuori dalla notte, dentro un mare a perdita d’occhio, fluttuante.

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