La recensione

From Bollani to Chiasso, cronaca di un colorato trionfo

Tra il blu e il verde, e ottimi Soloists, il pianista segna un’altra tacca al Cinema Teatro: ‘Un pubblico così bello che dovremmo portarcelo in tour’

Da Via dei Matti n. 0 a via Dante Alighieri n. 3
(Francesca Agosta/Ti-Press)
17 ottobre 2021
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[…] Capitolo primo. “Adorava Chiasso. La idolatrava smisuratamente”. No, è meglio: “La mitizzava smisuratamente. Ecco. Per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin”. No, fammi cominciare da capo. Capitolo primo. “Era troppo romantico riguardo a Chiasso, come lo era riguardo a tutto il resto. Trovava vigore nel sottile andirivieni della folla e del traffico. Per lui, Chiasso, significava belle donne, tipi in gamba che apparivano rotti a qualsiasi navigazione…” (…) No, aspetta, ci sono: “Chiasso era la sua città, e lo era sempre stata” […]

Applicare l’inizio di ‘Manhattan’ di Woody Allen al Mendrisiotto ci serve per collocare la Rapsodia in blu di George Gershwin in contesti più ticinesi. Trattasi di esercizio di stile magari fine a sé stesso, ma in fondo di notte le strade s’assomigliano tutte. Tant’è. Tutto esaurito da un paio di settimane, il Cinema Teatro diventa la Carnegie Hall e la Settima strada nella città che non dorme mai diventa via Dante Alighieri 3, la strada dell’arte a Chiasso, traversa di Via dei Matti n. 0, strada della musica recentemente a lui intitolata: Stefano Bollani che qui suona Gershwin non è solo un gioco di specchi, ma anche i vent’anni dalla riapertura di una sala che ha visto transitare “premi Nobel, premi Oscar, vincitori dei più importanti concorsi di musica e di danza, vere star della musica e della televisione”, dice il direttore artistico Armando Calvia celebrando la ricorrenza e introducendo l’evento di ieri sera, “che ci riporta nella vera dimensione del fare teatro, cioè vivere del rapporto che si realizza tra ciò che accade su di un palcoscenico come questo e il suo pubblico”.

Ufficialità concluse. Davanti a un pubblico di vaccinati, col Cinema Teatro (detto alla Sandro Ciotti) gremito in ogni ordine di posti, Stefano Bollani in pantaloni chiari e camicia ugualmente chiara ma a fantasia floreale tendente all’arancione apre da solo al pianoforte con la rassicurante ‘Someone To Watch Over Me’, con quel “qualcuno che guarda su di noi” (decisamente il caso, o il Divino, se preferite) che un anno e mezzo dopo ci permette di vivere, da vivi, il momento: «La serata è stata chiamata ‘Da Gershwin a Bollani’ – dice il pianista poco dopo – e quindi ho pensato di cominciare con una canzone di Gershwin, compositore americano che non c’è più dal 1937. Il brano successivo invece era di un compositore italiano ancora vivente». Che è ‘Villa Incognito’, il Bollani dei titoli di coda del film d’animazione Disney-Pixar ‘Soul’. «Quella che ascolterete questa sera – dice ancora – è un’alternanza tra pezzi di Gershwin e di Bollani, un po’ come si fa nelle mostre d’arte contemporanea, che si mette Leonardo Da Vinci vicino a Jeff Koons. A voi cercare di capire qual è l’aggancio. Magari vi accorgerete che Bollani ha preso qualcosa da Gershwin, ma magari anche il contrario…».


Stefano Bollani con Gabriele Evangelista al contrabbasso, Bernardo Guerra alla batteria e la United Soloists Orchestra (foto: Francesca Agosta, Ti-Press)

Licenze, lacrime e pappagallini

È lungo il filo della migliore ironia da entertainer propria del protagonista che in ‘From Gershwin to Bollani’ sempre si passa di capitolo in capitolo. E il secondo capitolo è la ‘Cuban Ouverture’ (nata ‘Rumba’) scritta da Gershwin nel 1932 in vacanza all’Avana, esplosione di vita condotta in porto dalla giovane United Soloists Orchestra diretta da Arseniy Shkaptsov, con gli ottoni fisicamente sospesi a mezz’aria e sul palco energia e precisione d’intenti (e visto il gran caldo in sala, via le giacche nere e tutti in camicia). Di lì, a successione invertita rispetto ai programmi di sala, si passa ai quattro movimenti del Concerto Verde per pianoforte e orchestra, non prima che siano introdotti i fidi Gabriele Evangelista al contrabbasso e Bernardo Guerra alla batteria. Verde perché dedicato al chakra del cuore, verde perché «dovrebbe essere scritto e suonato col cuore. Tenetene conto». E sullo struggente Quarto movimento, una volta concluso l’annunciato ‘scherzo’ del Terzo («Lo insegnano al Conservatorio, qualsiasi cosa succeda, l’importante è che finiate tutti insieme. Funziona sempre, ancora oggi»), il cuore si gonfia di stima.

Il glissato di clarinetto, che un colonnista dell’American Heritage un giorno definì “riconoscibile quanto l’inizio della quinta di Beethoven”, è il segnale per la Rapsodia in blu, ottovolante sul cui ‘Leggiero’, omoni alla nostra destra che a fatica stanno tra le sedie della balconata possono anche scoppiare in lacrime senza ritegno, dopo (e prima) che Bollani e Gershwin s’incontrino nei rispettivi momenti solistici, con l’italiano a prendersi licenze e applausi (quattro minuti). Rompe le file, l’orchestra, ma resta sul palco in posture informali ad assistere al bis in forma di trio jazz per pappagallino (‘Ho perduto il mio pappagallino’ da ‘Que bom’ del 2018, lì con Hamilton de Holanda), in una pacifica guerra tra Bollani e Guerra, in solo tutti-contro-tutti che porta all’applauso finale (quattro minuti). Si chiude con trio e orchestra a far l’inchino insieme, a tempo, gli uni di fianco agli altri come sul palco fanno le stelle del rock and roll.

‘Se mi dite dove siete domani veniamo a sentirvi’

Dopo aver (ri)fatto suo Gershwin, Bollani fa sua una vecchia boutade da intrattenitori che più o meno fa così: “Siete un pubblico fantastico, se mi dite dove siete domani veniamo a sentirvi”. Poco fuori il camerino, tra Soloists che vanno e vengono e copie di ‘Que bom’ e ‘Piano variations on Jesus Christ Superstar’ che si fanno autografare, smessa la camicia fantasia per una più chitarristica maglietta Pat Metheny (a strisce orizzontali), Bollani è raggiante: «Stavo proprio discutendo con il tour manager (raggiante anch’egli, ndr) del fatto che questo pubblico è talmente bello che dovremmo portarlo in tour con noi, dovrebbe diventare parte integrante dello spettacolo. Al momento non so come la cosa si possa fare, forse con un sistema di pullman…». Più concretamente parlando: «Ho vissuto una magnifica sensazione anche soltanto entrando sul palco. Un teatro pieno di questi tempi era qualcosa d’inedito. C’era un entusiasmo molto particolare e ci ha presi tutti, credo che si sia percepito. Non ci eravamo più abituati da un pezzo, questa è la verità». L’ultima parola è per l’Orchestra dei Solisti Uniti: «Sì, con tutti loro c’è una bella intesa, e lo sai qual è il motivo? Sono giovani».


‘Era un pubblico così bello che dovremmo portarcelo in tour’ (foto: Francesca Agosta, Ti-Press)

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