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Giacomo Poretti, storia di un infermiere

Prima di Aldo e Giovanni, Giacomo ha lavorato all’Ospedale di Legnano, 11 anni in corsia finiti in ‘Chiedimi se sono di turno’, stasera e domani al Lac

‘E comunque in reparto non ero spiritoso’ (foto: Federico Buscarino)
15 ottobre 2021
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Nato nel 1956 da una famiglia di operai, appassionato di teatro sin dalla tenera età, prima di diventare il 33,33 per cento di Aldo Giovanni e Giacomo (il terzo dei tre), Giacomo Poretti comincia a recitare tra gli 8 e gli 11 anni tentando invano di farsi assumere in pianta stabile dai Legnanesi, ma di legnanese trova soltanto un posto d’infermiere all’ospedale di Legnano.

La breve e un tantino irrispettosa nota biografica (ma Poretti, è noto, ha il dono dell’ironia) ci serve per raccontare della causa scatenante che lo ha portato a scrivere lo spettacolo ‘Chiedimi se sono di turno’, titolo che ammicca a episodi cinematografici del trio, restando cosa profondamente a sé. Gli undici anni d’infermiere dell’attore, comico e sceneggiatore lombardo, dal 2019 anche direttore del Teatro Oscar di Milano, sono confluiti in un monologo che giunge al Lac di Lugano questa sera e domani, forte anche, da settembre, della sua versione letteraria intitolata ‘Turno di notte’ (Mondadori).

Dica la verità, Poretti: lei del Covid sapeva tutto prima, come i cinesi...

No, ahimè non sono cinese. È solo l’ingenuità del lombardo che ha pensato di mettere in forma, dapprima di spettacolo e poi di romanzo, le vicende d’ospedale che mi hanno coinvolto. Mi sembrava una cosa molto interessante. Poi, coi primi mesi di rappresentazione è arrivato il Covid. E subito dopo l’ho anche preso...

Un corto circuito: qual è stato il suo primo pensiero?

Il mio primo pensiero è andato all’emergenza assoluta dei primi mesi, quelli del sovraffollamento delle sale di rianimazione. Ho pensato alla fatica enorme, ma anche all’angoscia, non solo dei malati ma anche dei medici e del personale infermieristico. Per molto tempo, forse ancora adesso, non sono esistiti e non esistono protocolli terapeutici pienamente definiti. E l’evolversi della situazione non faceva che aumentare il livello della mia preoccupazione.

Si è mai immaginato malato di Covid in una di quelle corsie d’ospedale, sapendo meglio di altri cosa succede in un reparto di rianimazione?

Grazie a Dio mi sono ammalato senza finire in ospedale, fermandomi un millimetro prima dell’entrata, dopo 8-9 giorni di febbre molto alta. Erano pronti a ricoverarmi e per fortuna è finito tutto. Al di là del conoscere le dinamiche ospedaliere, ho semplicemente avuto una paura molto forte, andavo a dormire cercando di capire quali fossero le condizioni del mio respiro, e come si sarebbero evolute nelle ore successive, la mattina dopo.

Undici anni d’infermiere sono tanti. In ‘Chiedimi se sono di turno’ è riuscito a farceli entrare tutti?

Riassumere undici anni di quell’esperienza sarebbe stato molto difficile. Ho cercato di condensare gli aspetti che mi parevano più significativi, che da un lato possono risultare molto divertenti, come credo siano, ma che come potrà immaginare sono drammatici e davvero tristi.

Che infermiere è stato Giacomo Poretti?

Mi definirei un infermiere abbastanza diligente. Ho sempre sofferto una condizione comune tanto agli infermieri quanto ai medici, che è in fondo la più difficile da sopportare, il doversi tenere in bilico tra il cinismo e l’affezione totale verso gli ammalati. Con alcuni dei quali, si sa, si entra fortemente in empatia, con tutta una serie di conseguenze che si possono immaginare. La cosa più difficile è proprio mantenere quell’equilibrio, e cioè curare gli ammalati come fossero tuoi amici, ma senza permettere, senza permetterti, che lo diventino per davvero.

Come si passa da infermiere a comico? Ci sono affinità che non conosciamo?

Nemmeno una, almeno per quanto mi riguarda. Forse è un luogo comune errato quello di assegnarmi le parole “Ah, chissà quanto li facevi divertire gli ammalati!”. L’ammalato, vorrei specificare, non ha tanta voglia di ridere. Preferisce casomai stare in compagnia. Ma una compagnia silenziosa, perché troppa gli potrebbe dare fastidio. E comunque, nei miei anni d’infermiere non ero per niente spiritoso in reparto, in particolare con gli ammalati. Quello dell’umorismo è un aspetto che ho coltivato soltanto più tardi. E la spiritosaggine con la comicità non ha nulla in comune, si esplicano in ambiti completamente differenti.

Da infermiere è diventato attore, autore, scrittore, ora anche direttore di teatro: gli allentamenti la rasserenano?

La ripresa è stata graduale, ma molto lunga. Dall’11 di ottobre, grazie a Dio si può entrare a teatro con il Green Pass, al 100 per cento della capienza, qualcosa che mancava da un anno e mezzo, una sofferenza indescrivibile per il mio come per molti altri settori. Siamo contenti, abbiamo patito tanto, ma si è trattato di un male che ha pervaso tutta la società.

Le confesso che negli ultimi tempi rivedo l’immagine del suo Tafazzi un po’ ovunque. E non sono certo di vederci solo i no-vax...

Volendo fare una battuta sì, gliela si potrebbe pure applicare, ma il perché si concentri tanta rabbia sociale attorno a qualcosa che non avremmo mai immaginato ha motivazioni assai più complesse. Ci saremmo immaginati sollevazioni di popolo per altre cose, per gli stipendi bassi, per gli aumenti delle bollette, ma questo aspetto che si lega spesso a teorie complottistiche mi fa rimanere più spaventato che sconcertato. Perché in termini di logica stringente, non ci sarebbe discussione, fatti salvi i pericoli che in medicina ci sono sempre. Ma mai avrei immaginato che si sarebbero create così tante teorie differenti intorno a questa cosa. È un dato molto negativo che a mio parere non si fermerà qui. Il Covid è soltanto il tramite dei motivi che hanno esacerbato gli animi sino a questo punto.

Gli stipendi bassi, gli aumenti delle bollette: forse siamo stati tutti troppo Tafazzi, ci siamo percossi le parti basse da soli, senza fare nulla...

Da una parte sì, ma dall’altra trovo curioso che a livello di società diffusa vengano meno certi punti fermi legati prettamente alla fiducia. La fiducia nella medicina e non, attenzione, l’ossequio totale. Lo stesso vale per le istituzioni. Credo che entrambe abbiano perso completamente di credibilità, per colpa degli interpreti da un lato, e dall’altro per qualcosa di più generale che non saprei dire, se non che noi uomini moderni non crediamo più a niente, e quindi nemmeno alla medicina. Trovo la cosa preoccupante.

Possiamo continuare a credere nell’arte. Magari venendo a Lugano stasera e domani...

Non voglio assolutamente incensarmi mentre lo dico, ma ogni tentativo di produrre arte, spettacolo, non è finalizzato a proporre verità assoluta, ma a indagare la nostra esistenza e porre domande che aiutino a trovare le risposte, o quanto meno la strada che porta a esse. Mi permetto di dire che questo spettacolo va anche in questa direzione.

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