Culture

Pedro Lenz e Primitivo, una storia di integrazione

L’autore bernese è stato ospite della prima edizione di Lettere dalla Svizzera alla Valposchiavo per presentare la traduzione in italiano del suo romanzo

Pedro Lenz con Yari Bernasconi alla presentazione del libro
(Alessandro Belluscio)
4 ottobre 2021
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«Abbiamo parlato lingue diverse e ci siamo quasi sempre capiti». Difficile trovare un riassunto migliore della prima edizione di Lettere dalla Svizzera alla Valposchiavo, il festival letterario quadrilingue che si è tenuto lo scorso fine settimana. A parlare è stata, in chiusura dell’evento, l’ideatrice e coordinatrice Begoña Feijoo Fariña che si dice «molto felice del pubblico accorso a questa prima edizione: un pubblico numeroso, di età e provenienza differenti. Abbiamo avuto alcune persone che, nonostante fosse la primissima edizione, si sono spostate fino a Poschiavo, affascinate dal nostro progetto, per assistere ad alcuni o a tutti gli incontri, sia da diverse e lontane parti della Svizzera, sia dall’Italia».

Tra i numerosi appuntamenti, la presentazione in anteprima della traduzione italiana di ‘Primitivo’ di Pedro Lenz che uscirà, per Gabriele Capelli editore, il prossimo 11 ottobre. Il romanzo, ambientato nei primi anni 80 nella Svizzera tedesca, racconta dell’amicizia nata nei cantieri tra due muratori: il giovane Charly e l’anziano immigrato spagnolo Primitivo, uniti dalla passione per i libri. La biografia dei personaggi ricorda quella dell’autore: Pedro Lenz si è diplomato nel 1984 come muratore, riprendendo a studiare una decina di anni dopo e iniziando nel 2001 a lavorare a tempo pieno come scrittore. «Lei mi dica se non mi comprende: quando parlo italiano spesso prendo delle espressioni spagnole… l’italiano l’ho imparato sulla strada, non a scuola» ci dice quando lo abbiamo raggiunto, prima della presentazione, al telefono.

Che cosa l’ha attratta di questo festival?

Quando mi invitano a una qualche manifestazione cerco sempre di partecipare: è un onore, essere invitati, ed è sempre interessante avere uno scambio con gli altri scrittori e con il pubblico.
Questa manifestazione è una sorta di festival di tutte le lingue della Svizzera e sapendo che la traduzione di ‘Primitivo’ sarebbe uscita più o meno in questi giorni, mi è sembrata un’occasione interessante poterlo presentare, poter parlare di cosa succede quando si fa una traduzione dallo svizzero-tedesco all’italiano. Normalmente altre traduzioni dei miei romanzi si fanno partendo dalla versione in ‘Hochdeutsch’ perché è difficile che i traduttori conoscano lo svizzero-tedesco.

Nel caso di ‘Primitivo’ invece la traduzione è partita dallo svizzero-tedesco.

Sì. Come detto non è semplice trovare un traduttore che conosca bene lo svizzero-tedesco, ma l’editore c’è riuscito, e oltretutto a Roma: Amalia Urbano è figlia di immigrati italiani e ha vissuto i primi 13 anni della sua vita a Zurigo, prima di tornare in Italia con i genitori. Questo non è il primo mio romanzo che lei traduce: abbiamo già lavorato insieme per ‘La bella Fanny’ e sono molto contento del risultato.
Lei conosce molto bene lo schwitzerdütsch e quindi non le è stato difficile comprendere il testo di ‘Primitivo’, salvo qualche espressione particolare o i termini tecnici dell’edilizia. Siamo sempre stati in contatto per e-mail e per il vocabolario tecnico in genere risolvevo mandandole una foto: lei ad esempio non conosceva i ferraioli, quelli che mettono i ferri prima di gettare il beton, e così le ho spedito l’immagine di un cantiere in cui si vedono i ferraioli al lavoro.

Dallo svizzero-tedesco all’italiano, non al dialetto.

Sì: la mia letteratura è nel dialetto della Svizzera interna, ma la traduzione non è in dialetto del Ticino, ma in “italiano standard”.
Il motivo per cui scrivo in svizzero-tedesco è l’oralità: i miei personaggi parlano come io li ho nelle mie orecchie, in quella lingua che ascolto ogni giorno e che parlo con mia moglie e con i miei figli. È la lingua in cui sono immerso e in cui voglio scrivere e lasciare parlare i miei protagonisti. Se avessi ambientato il romanzo in una città del Ticino, i personaggi parlerebbero italiano, non dialetto. Per questo ho voluto l’italiano e non un dialetto che troviamo solo parlato dagli anziani o nelle valli.

Il romanzo racconta un incontro tra generazioni, tra Primitivo e Charly. Che cosa l’ha spinta a raccontare questa storia che credo sia in parte autobiografica?

In parte sì, è autobiografica. Ma quello che mi interessava era dare spazio agli operai edili che difficilmente troviamo in letteratura. Oggi si parla tanto di integrazione, ma negli anni Ottanta nei cantieri si trovavano a lavorare insieme persone provenienti da cinque-sei Paesi diversi con cinque-sei lingue diverse. E ha sempre funzionato: è l’integrazione pratica e mi piaceva raccontare anche questo, che prima dei discorsi astratti c’è l’umanità, l’amicizia, quei valori che sono anche più importanti della conoscenza della lingua.

Primitivo e Charly sono accomunati dall’amore per i libri.

Questo è un altro aspetto che volevo raccontare: no, non ogni muratore è muratore perché non andava bene a scuola, ci sono persone che lavorano nei cantieri perché sono stranieri, perché la formazione che avevano non conta niente in Svizzera, perché non hanno potuto studiare. Ho conosciuto molte persone come Primitivo: oggi in Svizzera è più semplice ma un tempo non era facile studiare. Primitivo era intelligente e voleva studiare, ma a 11 anni ha dovuto iniziare a lavorare e la sua formazione è tutta da autodidatta. E ha l’occasione di trasmettere il suo amore per la letteratura al giovane Charly che è un po’ il suo contrario, perché appartiene a una famiglia borghese in cui tutti hanno studiato e lui, per ribellione, è andato a fare il muratore.

Abbiamo detto che il romanzo è in parte autobiografico. Pedro Lenz in chi si identifica di più?

Io a 17 anni non volevo studiare: ero stanco della scuola, non volevo più essere trattato come un bambino, volevo essere adulto, volevo fumare come un adulto, bere birra come un adulto, guadagnare un po’ di soldi. Ho ripreso a studiare a trent’anni, quando ho compreso il valore della conoscenza anche incontrando persone come il personaggio del mio romanzo.

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