Culture

Alberto Nessi e i fantasmi a Soletta

Il poeta ticinese racconta la sua partecipazione alle ultime Giornate letterarie di Soletta

"È normale, in questi giorni strani" (© fotomtina)
22 maggio 2021
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Sono qui sull’Intercity per Zurigo che mi porterà a Soletta, dov’è prevista la mia partecipazione alle quarantatreesime Giornate Letterarie. Poco dopo Lugano entro nella nuova galleria e ne esco a Sant’Antonino. Fa un effetto strano: il riverbero del lago si spegne d’improvviso e precipitiamo nel buio, non siamo preparati a un ulteriore salto nella solitudine e nel mutismo, già favoriti dalla mascherina. Il Ticino adesso sembra più piccolo di prima, lo si percorre più in fretta ma con più malinconia: allo scuro non si vede niente, il verde è nero. E così io ripenso alla valle, al gran verde che mi avvolgeva ieri, quando sono uscito di casa a far due passi. C’era un gruppo di ragazzotti svizzerotedeschi tristemente allegri che cantavano sul sagrato della parrocchiale, i più ubriachi e recanti lattine di birra come viatico. Erano in cerca del bel Ticino. Io invece me ne andavo in cerca di tranquillità verso la Via Crucis sopra il paese e mi sentivo violentato dalle loro musiche. Le veroniche così azzurre, di solito indulgenti, mi parevano afflitte anche loro e un cane uggiolava lasciato solo dai cacciatori, rinchiuso in un casottello. Ma non hanno bisogno di compagnia anche i cani?
Avevo preso l’ombrello perché minacciava acqua. Gli uccelli tacevano e c’era quell’aria colma di attesa, un po’ torva, di quando sta arrivando la pioggia. E a me sembrava di essere Robert Walser, che faceva lunghe passeggiate con un ombrello appeso al braccio, come lo si vede in una famosa fotografia. Poi, sopra la porta di una casa in cima al paese, ho visto il cartello “Zu verkaufen/Vendesi”: proprio così, prima in tedesco e poi in italiano!
Ma non ho detto al redattore che parlerò di letteratura? Cosa c’entrano, queste divagazioni, con i Solothurner Literaturtage? Un professore a scuola direbbe che sto andando fuori tema. E invece no, perché qui in tasca ho il ritaglio di un settimanale ticinese del 14 giugno 1984 con un mio breve scritto. Titolo: ‘Tre giorni di letteratura’.Vi si parla del Kreuz; dell’Offener Block dove ognuno può leggere quel che vuole, basta che si annunci per tempo e sappia contenere la lettura entro dieci minuti; di Niklaus Meienberg che dall’alto della sua mole smitizzava tutto e tutti; di Peter Bichsel e dei suoi scherzi su Francesco Chiesa – ma è lo scrittore o l’ex ala destra del Chiasso Football Club? –; di Walter Kauer che dopo mezzanotte cantava l’Internazionale; di Jürg Federspiel, il quale tra un bicchiere e l’altro voleva convincermi a mollare la poesia e a scrivere romanzi… 

Ora, davanti al ristorante Kreuz, punto d’incontro per i festivalieri, non riconosco scrittori scrittrici poetesse poeti, nascosti come sono dalla maschera. Meglio così. Gli scrittori è meglio prenderli uno per volta. Ne incontri due o tre e dopo un po’ scatta la maldicenza: l’invidia in letteratura è irresistibile. I poeti, ha detto qualcuno, sono impossibili. “Genus irritabile vatum”, cantava Orazio nelle Epistole. Meglio dunque andare al Museo, dove posso stare tranquillo davanti alla bellezza, ammesso che ci siano ancora quadri dove si respira la bellezza. Che, come si sa, non è necessariamente solo armonia e proporzioni, ma può vivere anche nella rappresentazione di un mostro, di una cosa sgradevole, o moralmente condannabile.

Il Kunstmuseum di Soletta è immerso in una vegetazione oggi irrorata di piovosa uggia. Nelle sale della collezione permanente vado a passeggio tra la quattrocentesca Madonna delle fragole, che porge un fiore bianco al bambino, e una contemporanea piovra nera di Louis Soutter; tra i teschi di Cézanne posati su un tappeto orientale e i verdi di Cuno Amiet; tra René Auberjonois, per il quale ho un debole, e Alberto Giacometti. E nel gabinetto della grafica mi guardo la mostra in corso, il Paradiso perduto del basilese Fritz Baumann, le drammatiche xilografie di Otto Morach e le cartoline divertenti della sua amica Johanna Fülscher: ma com’erano arroganti i futuristi italiani alla Marinetti che odiavano i musei! Passeggiando solitario tra i quadri, capisco una volta di più come sia importante la lentezza, anche nella fruizione di un’opera d’arte: se si vuole davvero capire qualcosa e nutrirsi lo spirito.

Tornato al mio albergo della Baselstrasse, guardo dalla finestra e vedo ciuffi di vulneraria e di salvia pratense; e forse anche un paio di scabiose, ma non sono sicuro, bisognerebbe vederle da vicino. Salve, erbe selvatiche! Qui non c’è in giro nessuno, di scrittori neanche l’ombra, salvatemi voi; però gli ippocastani sono fioriti, le loro lampade illuminano l’asfalto e io parto alla ricerca di Robert Walser. Lo trovo in una strada della città vecchia, dove una targa dice che lo scrittore soggiornò là tra gli ultimi mesi del 1899 e l’aprile del 1900 (e magari pioveva come oggi, quando lasciò questa dimora…). Ma non fidatevi troppo delle targhe: Lukas, specialista di Walser, mi dirà che quella targa non è stata messa sulla casa giusta, anche se la strada è proprio questa dove mi trovo adesso.
Davanti alla Jesuitenkirche, a due passi dalla cattedrale tardobarocca di Sant’Orso creata dal nostro Pisoni di Ascona, una ragazza a piedi nudi fa le bolle di sapone, ma non quelle che fanno i bambini. Sono grandi palloni aerostatici sfumati di celeste e aleggiano ondeggiando sopra l’asfalto. Sarebbero una presenza meravigliosa per i miei nipotini Milo, Cosma e Léon. Nella Chiesa dei Gesuiti altre curve mi attraggono: quelle bianchissime degli stucchi arrampicati alle pareti delle navate e quelle colorate della Vergine che ascende al cielo, sopra l’altare maggiore, incorniciata da enormi colonne azzurre striate d’oro. 

La sera parlo coi fantasmi. Mi capita sempre, quando sto qualche giorno da solo: mi metto a parlare in dialetto, talvolta con traduzione simultanea. Così mi sento sicuro, perché dietro le parole c’è tutta l’infanzia e la giovinezza che mi fanno compagnia e gli amici che non ho più e gli antenati che scuotono la testa: cosa fai lì dai tedeschi, sotto la pioggia? Con quella borsa di pelle a tracolla?
Ho cominciato a parlare da solo già nel pomeriggio, attraversando il ponte sull’Aare. C’erano quei piccoli uccelli dal petto bianco a sfiorare l’acqua verde sotto di me, l’acqua sempre uguale da secoli e sempre diversa, l’acqua di questa Senna che va e va, come il tempo; e quegli uccelli – somigliano a quelli turbinanti questi giorni sopra il tetto della mia casa di valle – s’incrociavano, facevano picchiate come ragazzi in vacanza. E noi, rari passanti malinconici, ad aggiustarci la mascherina sul naso sopra quelle acque nella quali si riflette il passo mutevole delle nuvole. È allora che ho cominciato a parlare in dialetto.

La mia conversazione con Carlotta Jaquinta è andata molto bene, ma non c’era nessuno ad ascoltarci. È normale, in questi giorni strani. Solo qualche fantasma faceva la propria apparizione nel buio del teatro, ad ascoltare gli accordi del mio ‘Corona blues’. Dopo la lettura-intervista sono stato in compagnia di Christian, che traduce i miei libri in francese: abbiamo parlato di letteratura e mangiato, all’aperto, un piatto di pasta, sotto la pergola di un ristorante con terrazza.
Nel pomeriggio, mentre aspetto il taxi che mi porterà in centro per il dibattito in videostreaming, succede qualcosa: vedo uno scrittore ticinese. È Fabio Andina e tra di noi si stabilisce subito una corrente di vitalità, come quella di oggi sull’Aare con quegli uccelli che sfioravano le onde. Poi, nel salone vuoto del Landhaus, ultima tappa solettese: il dibattito, su “Crisi e letteratura”, tra Martina Clavadetscher, Gertrud Leutenegger e il sottoscritto, moderatore Lukas Gloor. Ognuno dice la sua davanti a nessuno: come vuole il virus, non ancora sconfitto. Su una cosa, fondamentale, siamo tutti d’accordo: la crisi, parlando in generale, è alla base della creatività. Il verbo greco “krino” significa separare, scegliere, e scrivere vuol proprio dire scegliere la parola giusta. Ma un conto è la poesia, il racconto, la pièce teatrale, un altro l’articolo per il giornale. Un conto è lo scrittore, un altro il giornalista. Il cronista informa, il poeta inventa il mondo. E ha torto, secondo noi, Mario Vargas Llosa, che recentemente ha detto, in un’intervista al ‘Tages Anzeiger’, che in Svizzera non c’è una grande letteratura: forse non ha mai letto Max Frisch, Friedrich Dürrenmatt, Nicolas Bouvier, Philippe Jaccottet, Erika Burkart e Giorgio Orelli, il Premio Nobel peruviano: che ci sembra appartenere alla “specie di uomini molto istruiti”, come avrebbe detto ironicamente Robert Walser…
Ripenso a queste cose, qui, seduto al tavolino di un bar vicino alla stazione con gli ombrelloni fuori, mentre aspetto il treno del ritorno in Ticino. Accanto a me, sotto il telo che protegge dalla pioggia, un uomo solo, silenzioso, immobile, con lo sguardo fisso sotto il cappellino, ha un tremito alle gambe.

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