Culture

Stravinsky in dialogo con la storia

Cinquant'anni fa moriva il compositore, monumento della modernità musicale e fondatore di un modello di cultura internazionale

Stravinsky (Keystone)
5 aprile 2021
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Stravinsky si presenta a noi con l’immagine dell’ultimo compositore della tradizione, del musicista ‘tutto d’un pezzo’, personalissimo, stilisticamente inconfondibile, monograficamente descrivibile. Benché dopo di lui si siano succedute figure di rilievo a interpretare le istanze di rinnovamento, nessuno si è imposto come personalità del pari rappresentativa (quasi un monumento) della modernità musicale, libero dai pregiudizi e dai condizionamenti del passato. Oggi, a più di un secolo di distanza ormai dall’esplosione del ‘Sacre du printemps’ (1913), egli appare come un classico. Non nel senso generico del compositore consacrato dalla storia, che ha trovato un posto definitivo nei manuali di storia della musica (poiché dopo di lui vi sono entrati Stockhausen, Boulez, Berio, Cage e altri ormai, come lui, già scomparsi), ma proprio nel senso di un Bach, di un Mozart, di un Beethoven, diventati nozioni correnti. Forse Stravinsky stesso non l’ha mai ammesso, per non smentire le sue ben note dichiarazioni sul fondamento oggettivo del linguaggio musicale, in cui è vano pretendere di lasciare il segno sfuggente delle emozioni e in generale di una inafferrabile problematica individuale.

Certamente con lui siamo lontanissimi dall’intimismo, sia esso quello della passionale forma tardoromantica o quello tormentato e convulso dell’espressionismo. Già in ‘L’uccello di fuoco’ (1910), con la fissità delle immagini e il balzo in primo piano della dimensione ritmica, appaiono le indicazioni di un’estetica che pretende di situare la musica in un ambito estraniato dal principio implicante l’immedesimazione del compositore nella sua opera. Tuttavia le tecniche di cui egli si è servito per immunizzare l’opera dalla compenetrazione con il suo artefice sono maturate e dispiegate con una coerenza tale, per cui a posteriori ne è uscito un profilo dell’autore in termini stilistici ancor più inconfondibili di quelli che servirono alle generazioni precedenti per le loro liriche, visionarie, apocalittiche confessioni individuali. 

Chi ha mai scritto nel Novecento un’opera paragonabile al ‘Sacre du printemps’ per concezione, struttura e impatto? Nessuno, certamente. E chi fu più votato al fallimento degli imitatori di Stravinsky? Tutti indistintamente. Prescindendo dal fatto che il compositore russo non ebbe allievi e si rifiutasse di tener cattedra (la sua unica esperienza didattica rimane confinata alle famose sette lezioni di “poetica musicale” tenute davanti agli studenti dell’Università di Harvard nell’anno accademico 1939-1940, che non sono per nulla un corso di composizione), non era bastante l’analisi delle sue tecniche compositive per penetrare il segreto del suo “far musica” poiché, accanto alla precisione e all’essenzialità dei suoi modi, agiva l’elemento imponderabile della sua forza creativa che si è sempre mantenuta a un livello di ferma convinzione nelle proprie possibilità. Non a caso Stravinsky è stato uno dei pochi compositori moderni a non conoscere momenti di crisi: egli non ha mai conosciuto il silenzio, e forse nemmeno il dubbio. Oltretutto la sua produzione è assai vasta e perfino negli anni della vecchiaia la sua mano non si è mai ritrovata appesantita dalla fatica.

Evidentemente il fatto si può spiegare con la deliberata scelta di ricondursi alla condizione di artigiano, serenamente posto davanti al proprio compito. Ma proprio tale atteggiamento, non condiviso dagli altri grandi della musica moderna, gli permetteva di riprodurre a distanza di decenni, per non dire di secoli, la felice condizione dei musicisti del passato, la loro disciplina, la loro fiducia nella possibilità del comporre. In questo senso Stravinsky è un classico e in questo senso una parte non indifferente della sua musica è divenuta popolare. Il pubblico che ascolta Bach, Mozart, Beethoven, prima ancora di coglierne i significati implicati in un sistema di idee, si compiace nel riconoscere i dati morfologici e strutturali del loro stile. Tale distinzione di due piani di ascolto, deprecabile fin che si vuole, è un fatto comune. E se ciò crea ostacolo alla comprensione della musica moderna da parte del grande pubblico (proprio in quanto in tale musica le implicazioni ‘ideologiche’ sono in generale inscindibili dai dati stilistici) ciò è ancora possibile per quanto riguarda la musica di Stravinsky.

Cosmopolitismo

Esaurite queste osservazioni sul carattere ‘conservatore’ del messaggio stravinskiano, è opportuno porre l’accento sul suo carattere ‘progressivo’. In questa direzione tutti gli hanno riconosciuto il merito di aver dato il la alla musica moderna, per quel che concerne la definizione di un comportamento, rappresentato dal balzo in avanti in progetti che più non tengono conto della capacità del pubblico di seguire le nuove vie proposte. Questo Stravinsky fece, liberandosi senza esitazione e senza fatica dalle remore della tradizione, ciò che non si può dire degli altri grandi della musica moderna (Schönberg, Bartók eccetera), i quali percorsero questa strada a tappe. Qui occorre cercare l’origine della rappresentazione che tutti noi ci siamo fatti di Stravinsky, il quale, prima ancora che musicista, conta come figura emblematica, immagine particolarmente fulgente di un’epoca leggendaria (e con ciò pensiamo agli ‘scandali’ parigini di inizio secolo prodotti dall’esecuzione delle sue opere “fauve”).

Anche se a conti fatti la sua carica modernistica risulta inferiore a quella che si è rivelata più travolgente di uno Schönberg, la sua azione battagliera centrata sulla capitale francese, che coinvolgeva pittori, scrittori oltre che musicisti, rappresenta un chiaro punto di riferimento, l’anno zero di una nuova epoca. Una nuova era rappresentata da idee cosmopolitiche, dall’abbattimento delle barriere nazionali che ancora agli inizi del secolo separavano svolgimenti diversi di musiche diverse. Per quanto moderno Debussy era ancora francese, per quanto moderni Mahler e Strauss erano ancora tedeschi, per quanto moderno Alfredo Casella si denotava come italiano, per quanto moderno Bartók rimase fino agli ultimi anni ungherese. Stravinsky divenne subito cosmopolita. L’abbandono della natìa Russia già sul piano geografico costituiva un programma. Così dicasi del suo successivo trasferimento negli Stati Uniti, dopo aver lasciato Parigi, il luogo delle sue maggiori affermazioni. Egli fu uno dei primi a comprendere in che senso il mondo moderno stava trasformando la sua geografia culturale. Così già dopo ‘Petruška’ nella sua musica la matrice nazionalistica si dissolve. Questa era la prima premessa per un progresso del linguaggio musicale. Per quanto moderna, la poetica del parigino Gruppo dei Sei (Milhaud, Honegger, Poulenc eccetera) si muoveva nell’ambito della tradizione musicale francese. Per questo motivo essa si dimostrò ben presto sorpassata. La stessa osservazione vale per altre esperienze artistiche dell’ultimo anteguerra.

Stravinsky costruì la sua polemica non contro una tradizione nazionale ma contro la tradizione tout court, fondando un modello di cultura internazionale. Ciò spiega anche l’enorme fortuna della sua musica subito dopo gli anni Venti; fenomeno unico e fortuna che non toccò all’altra grande esperienza musicale di quegli anni, quella schönberghiana. Il ‘Sacre du printemps’ reca come sottotitolo “Quadri della Russia pagana”, ma giustamente nessuno ritenne opportuno calcare sull’origine folclorica dei materiali impiegativi, poiché non sono questi a determinare il significato profondo dell’opera. Principalmente tale musica decretava, con la sua brutalità e la sua selvaggia aggressività sonora, l’affossamento della tradizionale idea di bellezza dell’opera d’arte denotata dall’idea di un ordine immediatamente comprensibile, in secondo luogo essa significava l’abbandono di ogni velleità soggettiva, di ogni retorica proclamazione dell’“io”. 

Imbalsamazione del passato

La musica vi è ricondotta alla sua primitiva funzione di espressione elementare di sensazioni e principî costruttivi, e indirizzata a intraprendere, durante il cosiddetto “periodo neoclassico” e nei successivi svolgimenti della sua esperienza, un lungo itinerario ‘culturale’ in un certo senso a ripercorrere l’intera storia della musica, a raccogliere l’essenziale delle più importanti esperienze trascorse. Le sue opere “neoclassiche” (da non confondere con la moda neoclassica tanto diffusa negli anni dell’anteguerra, ambiguamente derivata dalla sua esperienza) non denotano nessun sintomo di compiacimento, sia esso vagheggiamento del passato oppure affermazione di ordine ripristinato, poiché in esse è sempre presente un elemento critico o una scintilla di ironia capace di contenere il calco bachiano o altro simile entro ponderate dimensioni. Qualcuno ha parlato di “parodia”, termine appropriato solo specificando (come ha fatto acutamente Massimo Mila) che non si tratta di “caricatura burlesca” bensì di “travestimento”, nel senso di annettere a sé qualcosa di fondamentale lasciato in eredità dalle esperienze del passato.

Nessun rimpianto quindi per i gloriosi modelli dei tempi che furono, semmai richiamati a testimoniare la loro grandezza non tanto in un’operazione di rivitalizzazione ma piuttosto di un loro congelamento (o una loro imbalsamazione), come avviene programmaticamente nell’opera cruciale ‘The Rake’s Progress’ (1951). Chiamato da qualcuno “atto di decesso del neoclassicismo nel genere stesso dell’opera”, nel percorso a ritroso dell’intera storia del melodramma vi sfilano genialmente forme mummificate del passato. Nell’ultima scena Tom, languente nel manicomio in cui è rinchiuso credendosi Adone, programmaticamente implora Orfeo, il primo cantore, lo stesso che aveva dato origine al genere operistico, mentre (prima della calata del sipario) i protagonisti si presentano sul proscenio direttamente rivolti al pubblico a esporre la morale della storia con palese riferimento al finale del ‘Don Giovanni’.

Si tratta di un processo attuato con serenità, beninteso, e in un certo senso senza ambizione, mantenendone l’esito artistico al di fuori di ogni possibile slancio soggettivo. Processo che si completa nell’assunzione, o forse meglio (data la risolutezza sciolta da qualsiasi esitazione) nella fagocitazione di altri aspetti fondamentali della musica del Novecento: “Tutto quanto mi interessa, tutto quanto mi piace, vorrei farlo mio”, così si espresse il musicista in una conversazione.

Il fatto più significativo, di una cultura in senso nuovo libera da pregiudizi di dignità gerarchica, è stata forse l’attenzione rivolta al jazz, assimilato in alcune sue opere (‘Ragtime’, 1918; ‘Ebony Concerto’, 1945) nelle quali egli ha saputo essenzializzare la pulsazione ritmica, scoprendo in fondo che questo dato già risultava presente nelle sue prime composizioni.

Più discussa è stata invece la sua svolta dodecafonica, a partire da ‘Threni, id est Lamentationes Jeremiae Prophetae’ (1958). Qualcuno ha voluto leggervi il suggello della fine dell’antagonismo indicato nella prima metà del secolo tra l’oggettiva poetica stravinskiana e l’esperienza schönberghiana. Simile giudizio è sicuramente superficiale, poiché la storia della musica moderna non si lascia spiegare solo attraverso questo preteso antagonismo fra le due esperienze. È da riconoscervi piuttosto la sagacia e l’audacia insieme di un artista che, ormai vecchio e isolato davanti alla complessità degli sviluppi della musica d’avanguardia, riuscì fino all’ultimo a dialogare con la storia.

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