Culture

Nicola Lagioia, lo sguardo dello scrittore

Abbiamo incontrato l’autore di ‘La città dei vivi’, ospite di L’immagine e la parola per un incontro con il direttore del festival di Locarno

Nicola Lagioia (Foto Chiara Pasqualini)
27 marzo 2021
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Lo abbiamo incontrato “in presenza”, nel foyer del GranRex di Locarno: Nicola Lagioia, scrittore nonché direttore del Salone internazionale del libro di Torino, è l’ospite di questa edizione online di ‘L’immagine e la parola’, evento primaverile del Locarno film festival, protagonista di un incontro – oggi alle 16 sul sito www.locarnofestival.ch – con il direttore del festival Giona A. Nazzaro che prende il titolo dall’ultimo libro di Lagioia, ‘La città dei vivi’, ricostruzione letteraria dell’omicidio del giovane Luca Varani avvenuto nel 2016. Dopo l’incontro, sempre sul sito del Locarno Film Festival, vi sarà la proiezione on demand di ‘La spiaggia’ di Alberto Lattuada, protagonista della Retrospettiva di Locarno74.

Nicola Lagioia, siamo ‘in presenza’ ma per un evento che si svolgerà ‘a distanza’. Personalmente, si è abituato, rassegnato, stancato?

Credo di essere nella media, di essere abbastanza banale nel dire queste cose. Per lavoro viaggiavo molto, capitava che non dormissi più di due-tre giorni di seguito a casa, per cui il premio periodo di lockdown, seppure con le difficoltà l’enorme preoccupazione per la pandemia, mi sono un po’ riposato, mi sono occupato un po’ di me stesso. Da dopo l’estate, invece, è veramente dura: la mancanza di socialità è una cosa che almeno io sento più forte di prima. Mi sono un po’ stancato dello streaming, anche alcune cose rimarranno ed è bene che rimangano: videoconferenze di lavoro che ci fanno risparmiare tempo e spostamenti. Tuttavia mi faccio una domanda, mi rendo conto un po’ da creatura novecentesca: anche le aziende risparmiano, ma questi profitti che aumentano a chi vanno? Se aumenta la produttività, o dovremmo guadagnare di più o dovremmo lavorare di meno.

E come direttore del Salone del libro di Torino?

L’anno scorso abbiamo spostato tutto quanto online: un grande successo di pubblico, un sacco di persone che non sarebbero venuti a Torino hanno potuto seguire gli incontri del Salone. Ma la mancanza del contatto fisico, della socialità la si inizia a sentire in maniera sempre più urgente.

Lo streaming non è quindi una soluzione a lungo termine?

È anche un problema economico. Il Salone ha fatto tutto quanto online, ma a beneficio degli editori e dei lettori, ma non sicuramente del Salone che guadagna dai biglietti e dal fatto che gli editori comprano lo spazio per gli stand. E anche il territorio è rimasto danneggiato: le ricadute economiche sono quasi dieci volte il costo, basta pensare agli alberghi, ai ristoranti, ai taxisti, ai negozi… una ricchezza che al territorio non è arrivata.

E la gente non si incontra: la cosa bella dei festival – letterali, editoriali, cinematografici… – non è soltanto poter vedere il tuo regista preferito, la tua scrittrice, il tuo interprete ma incontrare persone accomunate dalle stesse passioni.

Il modello delle fiere e dei festival non era già in affanno per via del digitale?

Se stiamo a vedere i numero no. La gente viene, vuole vedere lo scrittore o la scrittrice. Poi ci sono cose che in digitale funzionano molto bene, ma il problema adesso non è l’online, il problema è la pandemia.

‘La città dei vivi’ è un romanzo particolare, risultato di approfondite ricerche, ma non è un’opera giornalistica, un saggio o un reportage. 

Non è proprio un romanzo, perché il romanzo ha in sé l’idea di finzione. È un’opera letteraria che rinuncia alla finzione nel tentativo di raccontare con un uso della lingua e della costruzione drammaturgica tipico della letteratura un fatto non di invenzione. Ci sono molti di questi esempi, nella letteratura italiana: ‘Cristo si è fermato a Eboli’ di Carlo Levi, non è un romanzo ma un’opera letteraria che scopre un mondo altrimenti sconosciuto. ‘Se questo è un uomo’ di Primo Levi purtroppo non è un libro di finzione ma indaga una realtà terrificante. Perché la postura dello scrittore di certi aspetti della realtà riesce a catturare qualcosa che sfugge all’occhio dello storico, dell’antropologo, del filosofo, del criminologo. Ovviamente vale anche il contrario, ci sono cose che riescono a vedere solo lo storico o il filosofo e sfuggono allo scrittore.

‘La città dei vivi’ si inserisce in questa tradizione che non è solo italiana: in Spagna ci sono scrittori come Javier Cercas, in Francia c’è Emmanuel Carrère… nel mondo anglofono li si chiama “non-fiction novel”, in italiano non mi pare ci sia un termine.

Quali sono gli aspetti che uno scrittore coglie e altri no?

L’aspetto emotivo, l’aspetto umano, l’aspetto relazionale: sono gli aspetti su cui di solito la letteratura si stringe di più. E in più c’è forse un elemento rituale. Mi viene in mente una scrittrice che amo molto, Svjatlana Aleksievič: il suo ‘Preghiera per Černobyl’ che cosa è? È un documento molto importante, è un’opera letteraria ma anche una specie di gesto rituale perché prende delle voci vere di un fatto drammatico, le mette insieme e ne fa un coro che diventa controcanto al canto mortifero della crudeltà umana.

Il libro era stato proposto per lo Strega, ma ha deciso di rinunciarvi. Perché?

Perché avevo già vinto lo Strega con il libro precedente, il romanzo ‘La ferocia’. Mi sembrava un po’ arrogante il fatto di ripresentarmi dopo sei anni. Poi non so se ho fatto bene o fatto male: c’è chi mi ha detto che è stato un bel gesto, chi invece mi ha detto che sono stato stupido perché ho rinunciato a tutta una serie di vantaggi. Non lo so: avessi scritto dei libri in mezzo, forse non mi sarei ritirato. E non critico chi si è ripresentato: Sandro Veronesi l’anno scorso ha vinto il secondo Strega, ma erano passati quindici anni e tra ‘Caos calmo’ e ‘Colibrì’ aveva scritto altri libri di una certa importanza. Per me sarebbe stato il libro immediatamente successivo, ho preferito non peccare di hybris.

Quali sono i vantaggi di vincere uno Strega?

Moltiplica il numero di copie vendute: prima avevo venduto credo ventimila copie, che non erano poche; dopo sono arrivato a quasi centomila. L’editoria straniera se ne accorge, aumenta il numero di traduzioni.

E per alcuni giorni sali agli altari delle cronache anche tra quelle persone non sono lettori forti. I premi come lo Strega hanno il merito di far diventare popolari libri letterariamente molto complessi che altrimenti quella popolarità non la avrebbero mai raggiunta. Faccio l’esempio di Edoardo Albinati, che vinse con ‘L’educazione cattolica’, un libro di 1400 pagine molto bello, letterariamente molto alto che però senza lo Strega non avrebbe avuto accesso a quella notorietà.

Siamo ospiti del Locarno film festival: qual è il suo rapporto con il cinema? Non solo spettatore, visto che a Venezia è stato membro della giuria e prima ancora selezionatore.

Un’esperienza bellissima, fare il selezionatore. Anche il giurato, ma dura dieci giorni e devi vedere venti film. Come selezionatore devi vedere 1300 film: ovviamente alcuni sono brutti, però hai davvero un’idea di quello che sta succedendo nel mondo.

Non so se sono un cinefilo, però sono uno a cui il cinema piace molto e che soffre in questo periodo interrotto. Anche con la pandemia, l’esperienza del libro è sempre la stessa; il cinema ha bisogno della sala, della condivisione con le persone. Un modello, quello sì, già minacciato dall’online: chissà dopo la pandemia cosa succederà. I festival non credo ne risentiranno, perché sono occasioni di condivisione; mi chiedo però che cosa accadrà ai cinema nella vita di tutti i giorni, e non so rispondere.

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