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Chiara Valerio, la matematica e la democrazia

Intervista all'autrice, ospite con Gustavo Zagrebelsky del primo appuntamento del nuovo ciclo di Arti liberali del Lac

Chiara Valerio (foto di Laura Sciacovelli)
25 febbraio 2021
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Arti liberali riparte dalla matematica: il primo incontro del nuovo ciclo di incontri organizzato dal Lac di Lugano avrà come ospiti – in streaming su www.luganolac.ch venerdì 26 febbraio alle 20.30 – il giurista Gustavo Zagrebelsky e la scrittrice e traduttrice Chiara Valerio. Non la matematica di integrali ed equazioni differenziali, che nel suo libro ‘La matematica è politica’ (Einaudi 2020) Chiara Valerio confessa di non essere più in grado di risolvere nonostante un dottorato di ricerca in calcolo delle probabilità e anni di insegnamento; quella di cui si parlerà è la matematica come forma di pensiero, quella per cui “ciascuno può ritrovare o ricavare un risultato da solo”. Per questo “penso che studiare matematica educhi alla democrazia più di qualsiasi altra disciplina” scrive Chiara Valerio nel suo breve saggio che alterna racconti personali e riflessioni sulla società, il sapere scientifico, il vivere comune.

Il testo esplora un tema sul quale si è molto dibattuto: il rapporto tra democrazia e sapere scientifico (in questo caso matematico), superficialmente lontani – “la scienza non è democratica”, hanno affermato alcuni sottolineando come le conoscenze non vengano messe ai voti – ma in profondità collegati come si può leggere, per quanto come detto in maniera personale e aneddotica, nelle pagine del saggio di Chiara Valerio.

Chiara Valerio, nel suo libro affronta anche i pregiudizi sulla matematica di cui vediamo gli effetti nella “lecita ignoranza”: non sapere cosa è un integrale è normale e forse anche auspicabile, mentre ignorare un congiuntivo o chi era Dante inaccettabile. Come convincerebbe una persona che la matematica è cultura?

Non credo si possa convincere qualcuno che la matematica sia cultura, motivo per cui in questo libro tento di presentarla come una prassi. Non mi viene in mente, d’altronde, un solo comportamento che, oggi, non abbia radici culturali. Pensi come abbiamo addomesticato il nostro rapporto col cibo, per esempio, come lo abbiamo staccato dalla nutrizione. Mi dispiace, certo, che la matematica sia uscita dal corredo di conoscenze di un umanista, ma capisco che confrontarsi con una disciplina nel quale non esiste principio di autorità e dunque dove l’assertività, i capi, i capetti sono banditi sia percepita come una disciplina faticosa, e fuori luogo in un mondo dove tutto viene immediatamente gerarchizzato, e taggato.

A proposito di pregiudizi sulla matematica: uno di questi vede gli uomini più portati per pensiero scientifico e astratto (matematica inclusa) e le donne più alle materie umanistiche e concrete. Nei suoi studi ha subito questi pregiudizi?

Se li ho subiti, non me ne sono accorta. Penso ovviamente non ci sia alcuna differenza tra il cervello degli uomini e quello delle donne riguardo l’approccio alle materie scientifiche. E questo riguarda il cervello dentro di noi. C’è però un cervello fuori di noi, fatto di memoria collettiva, di abitudini sociali, di relazioni che le donne hanno la possibilità di esercitare da duecento anni a questa parte. È questo cervello sul quale dobbiamo agire per abbattere questioni che non riguardano le capacità ma le abitudini che, talvolta, funzionano come leggi inviolabili.

Pur riconoscendo il valore culturale della matematica e la sua importanza per una formazione culturale completa, rimane il fatto che la matematica è il regno delle deduzioni rigorose e dei concetti astratti, ben lontani dalla politica, concreta e fallibile. In che misura quindi “la matematica è politica”?

Le verità matematiche sono tutte assolute e tutte transeunti, valgono in certi insiemi e non in altri. Cambiano secondo l’insieme sul quale sono definite. Le verità matematiche possono essere contrattate, volta per volta. E questo somiglia alle verità democratiche, cioè ai diritti acquisiti e a ciò che rigorosamente, per quanto possiamo essere rigorosi, ne discende. Inoltre, la matematica va esercitata, presuppose un attività, esattamente come la cittadinanza in democrazia. I matematici inoltre, per quanto vengano rappresentati come esseri chiusi in una torre d’avorio a pensare da soli per anni, non prescindono mai dalla comunità dei matematici per il risultato che ottengono. E non prescindono dalle conoscenze ottenute da altri. La matematica crea comunità, esattamente come la democrazia.

Nel libro si legge che “in matematica, grazie al ragionamento deduttivo, non esistono principi di autorità”. Anche in democrazia, prosegue, non c’è il principio di autorità; ma qui diventa centrale il tema della fiducia, quello per cui ad esempio “accettiamo” e non “subiamo” decisioni come il Lockdown. Conoscere la matematica cambia il nostro modo di intendere la fiducia?

Io credo di sì, ma credo valga anche per la filologia romanza, o per l’educazione fisica o per il gioco degli scacchi, o del calcio. Avere la coscienza che tutti giochiamo con le stesse regole significa prima di tutto ammettere che per essere liberi in un collettivo devono esserci regole comuni condivise e contrattabili e significa poi essere disposti a sospendere una parte di quei diritti acquisiti e inalienabili per una libertà più ampia e per una forma etica più globale. Certo, questo presuppone una chiarezza nella comunicazione delle limitazioni che in Italia non sempre c’è stata.

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