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Spiegando la leggenda: Chick Corea per Alberto Tafuri

'Terzo, non in ordine d'importanza, di un'ultima importantissima generazione dopo la quale di pianisti così non ne sono nati più'. L'intervista.

Alberto Tafuri (facebook official)
13 febbraio 2021
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“To Chick Corea. In recognition of the extraordinary contribution he has given to contemporary music and culture. Lugano, july 1, 1995”. Usava queste parole, ventisei anni fa, l’allora Lugano Estival Jazz per motivare il Premio alla carriera a Chick Corea, leggenda del pianoforte spentasi all’età di 79 anni lo scorso 9 febbraio per una rara forma di cancro. Tra le figure centrali nello sviluppo del jazz nel dopoguerra, 23 Grammy Award, come nessun musicista jazz mai. Abbiamo affidato il suo ricordo ad Alberto Tafuri, pianista, compositore, produttore.

Alberto Tafuri, ci spieghi cos’è una leggenda del jazz e perché il termine si applica a Chick Corea?

Chick Corea è uno dei tre grandi pianisti della modernità, il terzo non in ordine d’importanza insieme a Keith Jarrett ed Herbie Hancock, tre pianisti che hanno influenzato radicalmente tutto il pianismo jazz moderno. Prima di loro c’erano stati due grandissimi innovatori, McCoy Tyner del quartetto di John Coltrane e Bill Evans, transitato dal gruppo di Miles Davis per poi fare musica a nome suo. Dopo questi due giganti è stata la volta del trio Corea-Hancock-Jarrett, ultima importantissima generazione dopo la quale di pianisti così non ne sono nati più.

Con Miles Davis a fare da collante fra i tre, e con Corea che ha sempre sostenuto di dovere proprio a Miles Davis la sua libertà artistica…

Sì, tutti e tre militarono nel gruppo di Miles Davis, anche Keith Jarrett che per sua stessa ammissione disse di averlo fatto un po’ controvoglia, perché già voleva portare avanti la sua musica da solo, per poi correggere il tiro negli anni, come succede con tutte le grandi esperienze della vita, che presuppongono del tempo affinché possano dirsi elaborate. Chick Corea militò nello stesso gruppo in registrazioni dal vivo, prima che Jarrett andasse via. Hancock suonò nel primo quintetto, prima degli altri due. È vero, il fatto che questi tre grandissimi pianisti abbiano caratterizzato la modernità, un po’ si deve all’avere avuto a che fare con Miles Davis, uno dei più grandi del ’900.

Se il primo capovolgimento musicale apportato da Chick Corea alla musica è indiretto, in quanto musicista di Miles Davis, Return To Forever, band e anche album, fu capovolgimento in prima persona che va sotto il nome di jazz fusion…

Sì. Essendo un’area molto vasta e dai confini musicali non così certi, la fusion fu un mondo in cui Chick Corea, in realtà, si sarebbe ritrovato in diversi momenti della sua carriera. Forse insieme a pochissimi altri, e mi viene in mente John McLaughlin, altro ex collaboratore di Miles Davis, per Chick Corea la parola fusion ha rappresentato più il prendersi libertà stilistiche che non una fusione di suoni. Corea era un musicista di formazione classica, si è sempre divertito a trarre ispirazione non solo dal mondo del jazz che frequentava, quell’élite che si scambiava le band. Provenendo da una famiglia di origini italiane, nella sua cifra stilistica ha sempre mischiato non tanto l’italianità, che in lui non si trova, ma la Spagna, per esempio. Al di là del trio Di Meola-McLaughlin-De Lucia, l’unico a fare altrettanto fu Chick Corea. La fusione per lui è stata diversa, così come l’uso dei synth e del piano elettrico nel periodo dei Return To Forever, non tanto una questione stilistica, ma di divertimento personale.

Mai ‘italiano’ se non in ‘Sicily’ con Pino Daniele…

Quello fu un periodo bellissimo. Erano i giorni in cui cominciavo a suonare ‘da professionista’ e Pino Daniele iniziava ad accompagnarsi coi grandi jazzisti, un punto d’orgoglio per noi musicisti. Conoscevo la versione originale di ‘Sicily’ di Corea, ma devo dirti che quella con Pino Daniele fu di gran lunga superiore, non solo perché c’era una voce italiana, mediterranea, ma perché fu un incontro felice, a mio parere. Di tanti incontri della musica italiana sbandierati fra il cantante italiano del momento e il jazzista magari non così presente, e penso a Miles Davis con Zucchero, collaborazione della quale non ricordo nulla pur conoscendo tutti i dischi di Miles Davis, la collaborazione Chick Corea-Pino Daniele fu una cosa bella e appassionante.

Altro capovolgimento: anno 1986, Chick Corea Elektric Band su dischi Grp…

Lo ricordo benissimo, fu uno dei capitoli della mia crescita musicale anche se non l’ho mai amato moltissimo proprio per il suono che produceva. Ma ricordo il primo disco, quello di ‘Got A Match’, un motivetto molto poco jazzistico, quasi bachiano. Prima della sua pubblicazione, ogni volta che i musicisti del mondo si ritrovavano su di un palco e si chiedevano “Cosa facciamo?”, quasi sempre la risposta era “Facciamo un blues”, la struttura più semplice. Ma quando uscì l’album ‘The Chick Corea Elektric Band’, la risposta diventò “Facciamo ‘Got A Match’”, con la forza di un tormentone estivo, ma un tormentone mondiale, non nazionale. Tenendo conto che insieme a questi sconvolgimenti musicali, parallelamente, Chick Corea ha sempre portato avanti anche il suo discorso di concertista solista. Questa è stata anche la sua grandezza: nel jazz entri in un ambiente aristocratico, un po’ snob, chiuso, sei giudicato subito, devi suonare in un certo modo e se non suoni in quel modo ti guardano storto. Ma se insisti e hai successo, ti rispettano. Gli americani non ti amano, ti rispettano, e quando dicono che ti rispettano, hai vinto tu.

Da dove si parte per conoscere la leggenda?

Consiglierei di partire da dove sono partito io, da un disco micidiale che si chiama ‘Three Quartets’, che Corea scrisse per questa formazione: Steve Gadd alla batteria, Eddie Gómez al basso, lui al pianoforte e Michael Brecker al sassofono, un quartetto potentissimo, quasi rock, dalla sonorità newyorkese, le composizioni di Corea molto articolate, piene di poesia mediterranea. C’è molto jazz, perché gli altri tre picchiano come disperati e c’è tanto pianoforte acustico. A mio parere, il lato solista, questa band e i primi dischi col piano elettrico sono le vette più alte raggiunte.

Per finire, ti chiedo di spiegare anche il suo ultimo statement pubblico: “La mia speranza è che coloro che hanno anche solo la vaga idea di suonare, scrivere, esibirsi o altro lo facciano. Se non per loro stessi, per il resto di noi. Non è solo che il mondo ha bisogno di più artisti, ma è anche divertente esserlo”.

Ci vedo più significati, non la generica importanza di divertirsi. Credo che una frase del genere, definendo il divertimento come elevazione spirituale, sia un invito a cercare il canale che ci porta all’elevazione spirituale, e la musica è fondamentalmente quello, un mezzo molto semplice alla portata di tutti ma subordinata all’impegno, al sacrificio. Il divertimento nella frase di Chick Corea in me si figura come il paradiso che si può raggiungere pagando il prezzo dell’impegno, del superare i nostri limiti, che sono quelli della pigrizia che ci porta ad ascoltare oggi grandi schifezze che, io credo, inquinano il nostro mondo da quando ci alziamo dal letto a quando andiamo a dormire.

L'intervista integrale ad Alberto Tafuri su 'Generi di conforto', il podcast de laRegione: www.laregione.ch/generidiconforto

 

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