Castellinaria

Luce, Domenica e le piccole cose di un 'Palazzo di giustizia'

È l'opera prima di Chiara Bellosi, già affermata documentarista, in concorso nella sezione 'Young'. Con due esordienti che strappano applausi.

Luce (sx, Bianca Leonardi) e Domenica (Sarah Short)
23 novembre 2020
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Nell’aula della Corte d’Assise di un non specificato tribunale italiano c’è un padre, Viale (Nicola Rignanese), un uomo dalla vita che è trascorsa sempre uguale come uguale può essere una vita vissuta in una stazione di servizio. Deve difendersi dall’accusa di eccesso di legittima difesa, perché – rapinato di 2'400 euro – ha sparato a uno dei due malviventi in fuga, uccidendolo. In aula, dietro le sbarre, c’è il rapinatore rimasto in vita, Magia (Giovanni Anzaldo). Solo una porta divide i due uomini da un corridoio nel quale, più che nell’aula, si svolge la storia del film di cui andremo a parlare con la sua regista. Nel corridoio ci sono Domenica (Sarah Short), figlia adolescente di Viale, Luce, 7 anni, figlia del rapinatore, e la madre Angelina (Daphne Scoccia), compagna dello stesso. Tre giovani, giovanissime, divise dalle scelte di vita di uomini adulti; tre donne più un passerotto, e un tecnico che ripara condizionatori (Andrea Lattanzi), elementi maschili aggiunti. Tre donne che hanno molti motivi per ignorarsi ma, al contrario, non lo faranno.

Malgrado il titolo, ‘Palazzo di giustizia’ non è un legal thriller e nemmeno una puntata di ‘Un giorno in pretura’, perché Chiara Bellosi, affermata documentarista all’esordio in un lungometraggio, alla vicenda processuale ha preferito la vita di chi attende fuori, narrata nelle piccole cose prodotte dall’attesa. Cose molto piccole, che un documentarista può ritrarre meglio di altri e che, alla fine, fanno amare il film almeno quanto la forza di chi vi recita. Che si tratti di professionisti – Rignanese su tutti, Scoccia a ruota – o esordienti – Luce e Domenica.

In concorso nella sezione ‘Young’ del Castellinaria 2020, in prima mondiale alla Berlinale, poi al Festival di Roma, ‘Palazzo di giustizia’ è una produzione italo-svizzera (tempesta e Cinédokké, in coproduzione con Rai Cinema e Rsi Radiotelevisione svizzera), dal cast che include anche i ticinesi Margherita Coldesina, Diego Benzoni e Cinzia Morandi.

Chiara Bellosi: ‘Palazzo di giustizia’ nasce come documentario per diventare una storia. Come si è passati dalla realtà alla finzione?

Da un’idea del produttore Carlo Cresto-Dina, seguita alla lettura della scrittura per quello che doveva essere il documentario. Carlo deve averci visto una possibilità e così ho speso mesi nel Tribunale di Milano a osservare, partendo dal nulla. Perché il tribunale è un luogo che non conosco né come funzionamento né come architettura. Stavo seduta, prendevo appunti su cose che mi colpivano. Ho cercato di abitare tutti i suoi spazi: le aule, quelle in cui mi era permesso stare, ma anche bar, cortili, corridoi, tutte le sezioni che poi sono anche gli ambiti che il tribunale tocca della nostra vita.

Fino a trovare l’illuminazione…

È partito tutta da una mattina in cui, girando per i locali, mi sono ritrovata nell’atrio della Corte d’Assise, un luogo molto ampio, praticamente un viale. C’era un’udienza in corso e fuori, e sedute sopra una cattedra parcheggiata lì quasi per caso, una giovane mamma e una bambina cercavano dei modi per far passare il tempo. Un po’ chiacchieravano, un po’ dondolavano le gambe, piccole cose messe in atto per combattere la noia. È stato concentrandomi sulla bambina che ho trovato la traccia da seguire. Una traccia ignorante, perché una bimba nulla sa del funzionamento di quel posto esattamente come nulla sapevo io. Ma la sua attitudine è servita a me per entrare in questo meccanismo. Seguendo lei, i suoi bisogni, la sua capacità di adattare quel posto a sé stessa invece che doversi lei adattare, è nata la storia. Anche per contrasto tra quella la vita interna all’aula e tutto quello che l’aula, o quel che accade in essa, si prende al di fuori di sé.

Colpiscono le due esordienti: Luce, anche per la giovanissima età, e Domenica, che regge un padre importante come Nicola Rignanese. Come sono state scelte?

È stata una ricerca molto lunga, avvenuta a Torino, dove si è poi girato. Abbiamo fatto casting aperti, visite nelle scuole, in tutti quei luoghi in cui si fanno attività pomeridiane. Abbiamo viste tantissime ragazze, finché sono arrivate Bianca e Sara. E una volta trovate, abbiamo inziato a vederle più spesso, per capire se sarebbero state quelle giuste. Io sono sempre stata presente sia ai casting che agli scouting, girando in lungo e in largo. Molto ha fatto anche la fortuna, perché sono apparse loro due. Bianca, in particolare, è una bambina con forte personalità. Ci ha colpiti il fatto che si divertisse tantissimo a fare questa cosa, mostrando una resistenza notevole i suoi, in quel momento, sette anni. È stata sempre molto propositiva, con un carattere che già di suo aveva qualcosa di Luce. Era lei a occupare il suo spazio, e non viceversa. È stata una grande fortuna incontrarla.

‘Palazzo di giustizia’ è anche una storia di donne.

Sì, e c’è una forte differenza tra l’interno, più maschile, e l’esterno, più femminile, col ruolo della madre che considero osmotico, essendo l’unica che varca la soglia tra l’aula e il corridoio. Cercando riferimenti alla legge, in fase di costruzione della storia, a un certo punto mi sono imbattuta in un’antica frase che dice che i padri sono la legge e le madri la legge naturale. Ho lavorato anche su questo concetto. In origine, la storia era più giocata sul dualismo interno-esterno. Con lo svolgersi delle cose, ognuno si è collocato da sé. Per le donne è accaduto fuori.

Per il contorno che si prende la scena, a scapito del fatto principale, a me è venuto in mente ‘Quel pomeriggio di un giorno da cani’. Ma tu hai citato Frederick Wiseman e il suo cinema di osservazione…

Wiseman è un regista che amo tantissimo soprattutto in alcuni suoi film sulle istituzioni, sull’emergere delle storie personali all’interno delle stesse. Sempre pensando il termini di documentario, mi affascinava portare questo concetto all’interno del tribunale, istituzione fortissima e dal linguaggio inaccessibile, ma attraversato da tantissime potenziali storie e da tanta umanità. Il riferimento iniziale è stato ‘Welfare’ (1975, ndr), in cui Wiseman entra in un centro di assistenza sociale e da tutta quella gente in coda, ogni tanto, ritaglia la storia di qualcuno, la vita quotidiana all’interno di un posto che di quotidiano non ha nulla, rispetto al nostro ordinario. Un quotidiano che comunque, come nel caso di Luce e Domenica, ha esigenze, desideri, bisogni.

Desideri e bisogni. ‘Palazzo di giustizia’ era atteso in sala a Massagno. Poi, le nuove disposizioni. Com’è fare cinema, o pensare di farlo, in questo momento?

Ora come ora, ovviamente, è tutto molto fermo e tutto molto a rischio. Il timore non è solo del cinema, ma a più livelli, condiviso da tutti. Spero che sia un momento per preparasi a un dopo, perché un dopo deve arrivare, e nel momento in cui si potrà ripartire, dovremo essere pronti con nuove storie, nuove possibilità. Certo la sala manca. Sono riuscita a vivere la prima e ultima settimana d’incontri prima dell’uscita in Italia in alcune città e incontrare il pubblico dopo la visione è una ricchezza enorme. È un pezzo che manca e speriamo che a un certo punto ci venga restituito. Anche con trenta persone, per assurdo, ma che possa essere di nuovo un respirare insieme in una sala senza pensare che ci ammaliamo tutti, ma che invece stiamo guardano una storia e ognuno reagisce a suo modo e, quei pensieri, ce li di dice anche.

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