Culture

‘Salviamo il giornalismo, non ci sono click che tengano’

Troppo odio nei post: il Giornale di Brescia in lockdown da Facebook. ‘Per il rispetto dei lettori e del nostro mestiere’. La direttrice, Nunzia Vallini

Nunzia Vallini, direttrice del Giornale di Brescia
20 novembre 2020
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È vero che l’abito non fa il monaco. Però pensate per un attimo a un monaco vestito come Fabrizio Corona, o come il clown Pennywise: credereste nel suo ascetismo? Chiedereste consigli sulla salvezza dello spirito? A Brescia credono che la reputazione di un quotidiano con settantacinque anni di storia dipenda anche dai commenti ai suoi post su Facebook. Tanto da rinunciare a una parte di un traffico di tutto rispetto – 18 milioni e mezzo di utenti per oltre 286 milioni di pagine viste – ringraziando tutti e andandosene via da casa Zuckerberg come si va via da una festa cominciata bene e finita che sono tutti sbronzi. Ma la sbronza (anzi 'la bala', come dicono lì) quella cattiva. “Ci siamo tirati fuori, in controtendenza e con convinzione”, scrive Nunzia Vallini, direttrice del Giornale di Brescia, nell’ultimo editoriale pubblicato sul social. “Riteniamo esista una sorta di corresponsabilità quantomeno morale se gli aggiornamenti di una pagina Facebook diventano – volenti o nolenti – pretesto per veicolare falsità, rabbia e frustrazioni o, peggio ancora, commenti che nulla hanno a che vedere con la pluralità delle idee e la loro libera e sacrosanta espressione, e ancor meno con il diritto-dovere di informare ed essere informati”.

Nunzia Vallini. Il tuo giornale ha fatto le valigie da Facebook. Nell’era di Facebook. A Brescia direbbero: “Ma ta sét dré a schersà?”

No, non stiamo scherzando. E non ci togliamo da Facebook, tecnicamente. Non postiamo più notizie. Continuiamo a interloquire con i nostri amici attraverso Messenger e quindi le loro segnalazioni entrano ancora, rigorosamente, a far parte del nostro lavoro quotidiano. Se ci chiedono qualcosa, rispondiamo direttamente lì o su tutte le altre nostre piazze: quella cartacea, che è l'ammiraglia del nostro gruppo, ma anche la televisione, la radio, il web. Ma abbiamo deciso di non postare più notizie su Facebook perché ogni notizia diventava pretesto per seminare odio, e questo non fa bene né alla nostra immagine, né alla salute emotiva di tutti coloro che seguono il Giornale di Brescia proprio perché intendono premiare quella che è una cura del linguaggio e una pacatezza dei toni. Per carità, questo non vuol dire che noi seminiamo solo buone notizie, ma c’è modo e modo per affrontare una notizia e noi chiediamo rispetto per le persone, innanzitutto, oltre che per il nostro mestiere.

Qualche notizia in particolare ti ha fatto prendere questa decisione? Si legge nei commenti che la visita a Brescia del Presidente della Repubblica Mattarella sarebbe stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Che forse era già traboccato…

Diciamo che il trend di questa aggressività che popola le piazze virtuali e quella di Facebook in particolare è un humus che registriamo da mesi. Credo che chiunque abbia un profilo, e io ne ho uno, possa verificare l’acutizzarsi di questa acredine che va di pari passo con un disagio sociale che sta crescendo. La seconda ondata Covid ha sicuramente enfatizzato questa tendenza. C’è anche questa contingenza temporale, per questo diciamo che abbiamo messo Facebook in lockdown, perché vogliamo dare uno stop in questo momento storico particolare, perché si tratta di una piazza troppo inquinata.

Che cosa, di preciso, non riuscite più a tollerare?

Noi cerchiamo di raccontare i fatti come sono, cerchiamo d’interpretare i dati così come sono forniti dalle autorità sanitarie, facciamo tutto questo sforzo che viene bellamente annullato da dichiarazioni tranchant, spesso e volentieri non rispettose della verità o che comunque enfatizzano solo una parte della verità, in un modo che a noi appare abbastanza strumentale. Su questo humus preoccupante di tensione che si alza, si sono innestati nell’ultimo periodo profili fake di cui sappiamo ben poco e che hanno palesemente manifestato la volontà d’incendiare ulteriormente l’ambiente.

Evidentemente paghiamo lo scotto di essere sì un giornale locale, ma molto seguito. Siamo il quotidiano locale più letto d’Italia, abbiamo una dimensione piccola che sfugge ai grandi controllori delle dinamiche del web proprio perché locale. Per altro, con un algoritmo, quello di Facebook, che premia le pagine in cui ci sono più reazioni. Capisci che seminare reazioni di odio a raffica fa impennare il posizionamento del giornale, per cui da un lato dovremmo brindare al traffico, dall’altro la nostra immagine esce stravolta. Rischiamo di essere conniventi e di veicolare un modo di fare informazione o, peggio ancora, disinformazione che non ci appartiene.

In tanti, sotto quell'ultimo post, vi hanno scritto che “bastava disattivare i commenti”, cosa che ora soltanto i gruppi di Facebook possono fare. Ma non c’era proprio altra soluzione?

Certo, potevamo potenziare il team dei colleghi che sino a ora avevano tentato di moderare il dibattito. Ma mi chiedo: perché? Perché dovrei impiegare risorse, uomini e anche un po’ di fegato, visto il modo in cui sono bersagliati, quando abbiamo tanto da fare anche in altre piazze reali o virtuali da presidiare, tantissimi lettori, telespettatori e radioascoltatori o fruitori del web che ci chiedono di continuare a fare il nostro mestiere con onestà intellettuale? Ma perché io dovrei diventare pazza per una piazza che non governo, della quale non condivido le regole d’ingaggio? Sinceramente… anche no.

Una delle accuse che vi muovono è che facendo così la date vinta agli odiatori. Vi accusano di avere rinunciato a combattere…

No. Questa è una semplificazione di un fenomeno più complesso. In realtà stiamo combattendo e continueremo a combattere, per altro condividendo con i colleghi che quel traffico che noi perdiamo – perché è chiaro che è un’iniziativa che costa, un costo che alla fine misureremo – è una sfida, ovvero quella di compensare quel gap facendo il nostro mestiere, con un’informazione puntuale, di servizio, anche di denuncia se necessario, ma sempre con un linguaggio rispettoso delle persone e dei più deboli. Non abbiamo rinunciato affatto. Rinunciamo soltanto a una piazza che approfitta della nostra presenza per snaturarci. Anzi, questa è una difesa della nostra identità ed è un rilancio per il nostro modo di fare informazione.

La decisione, in ambiti di stampa italiana, ha fatto discutere. Positivamente, mi pare di poter dire…

Sì, devo dire che la riflessione che ne è scaturita, nel mondo del giornalismo locale e non, mi fa pensare che forse i tempi sono maturi per una riflessione corale. Il grande assente in tutto questo, salvo rare eccezioni, è la politica. Perché? È presto detto: perché la politica, questo meccanismo perverso dei click lo usa, ci si tuffa dentro e cerca di governarlo. Ecco, ci stiamo rimettendo tutti, testate giornalistiche ma anche noi come cittadini, fruitori di un’informazione sempre più inquinata.

Nel tuo editoriale scrivi: “Non ci spaventano i numeri”. Questa decisione non ricade su di voi, in termini di risorse umane?

Assolutamente no. Questa è una scelta, non ti nascondo, condivisa proprio con il gruppo di lavoro che si occupa di web e di social. È un gruppo agguerrito che, se non sono tutti nativi digitali per nascita, lo sono per scelta, indole, mestiere. Anche loro si sono resi conto che nonostante gli sforzi non riuscivano a difendere l’integrità del nostro modo di comunicare. Che costa, in termini di lavoro. Cercare di comunicare bene, in modo interessante, appetibile senza giocare sulle parole in modo strumentale non è facile. Molto più semplice è fare titoli gridati, alzare i toni.

Quindi, anche senza Facebook abbiamo tanto da fare, e il data journalism non è prerogativa di Facebook. Restiamo attivi su tutte le altre piattaforme, quelle che forse meritano di essere seguite con qualche risorsa in più. Non facciamo altro che spostare lì quelle risorse che dovevano solo limitarsi a cancellare uno dopo l’altro commenti irriguardosi e seminatori d'odio. Perché il nostro mestiere non è quello di cancellare, semmai quello di scrivere.

Come la pensa l’editore? Faccio l'avvocato del diavolo: è pur sempre traffico, traffico in meno…

L’editore non ci valuta sul numero dei click, che non è una questione di poco conto. Chi ci segue non perde nulla, perché può trovare i medesimi contenuti su altre piattaforme e, per ultimo, abbiamo un’utenza che ci chiede di restare noi stessi. E comunque affianchiamo sempre le piazze virtuali a quelle reali. Posso dire che una piazza virtuale in meno rende indolore la nostra uscita di scena.

Com’è adesso che il vociame si è abbassato? O come sono, visto che hai parlato di mal di fegato, i vostri valori epatici?

Sono migliorati. Soprattutto i colleghi di desk, digital e social sono molto più rilassati, li rivedo con il sorriso. Perché, credetemi, dipende anche da come affronti la questione. Gli approcci sono due: o posti una notizia e te ne freghi di quel che capita dopo, oppure, se hai deciso che così non si fa, cerchi di moderare, vivendo nell’angoscia che, mentre fai altro, su Facebook ti si sia introdotto qualcosa cui dovrai porre rimedio. Non può essere così. Le nostre energie vanno rivolte verso altre iniziative. Siamo ancora un giornale che fa il telefono aperto con i suoi lettori. Tieni presente che era diventata talmente insopportabile questa situazione che c’erano commenti carichi di astio anche sotto informazioni di servizio come “Posso andare al cimitero a portare i fiori nel Comune vicino?”. Anche le risposte tecniche, pratiche, interpretative del nuovo Dpcm diventavano pretesto per insultare il Presidente del Consiglio o l’agente di polizia locale che ti fa rispettare il decreto. Nel momento in cui vuoi moderare, non vivi più. Più che giornalisti, facevamo i vigili urbani di Facebook.

Chiudo con quella che a mio parere è l’espressione più potente che sta nel tuo editoriale: “Sanificazione della parola”. La parola potrà mai sanificarsi?

È un termine che ho utilizzato nel senso di disinfestare quella piazza, renderla immune da quel virus che è l’odio, prima strisciante e poi palese e gridato. Io credo che il rendere sana quella piazza debba essere un impegno che deve coinvolgere tutti. Sono molto fiduciosa. So che questo dibattito potrà irritare il popolo di Facebook e tutti coloro che lavorano e quindi guadagnano attorno a questo mondo. Però è un tema che non si può non affrontare. Dobbiamo partire da lì. Io credo nella sanificazione delle piazze, reali e virtuali. Certo è che si tratta di un impegno a tutto tondo. Devi avere una concertazione di regole, di comportamenti, di cultura del rispetto verso gli altri. Mi dirai: “Sei una inguaribile idealista”. Forse. Può essere perché dirigo un giornale nato nell’aprile del ’45 come organo del Comitato di Liberazione Nazionale. Anche per questo credo che la nostra debba essere una nuova Resistenza, la Resistenza alla malaparola, a una comunicazione viziata. Già non è facile per noi proporre una comunicazione il più pulita possibile, perché mentre informiamo, interpretiamo anche ciò che comunichiamo. Dunque, non inquiniamola volutamente, la comunicazione, per strategia o ignoranza. Io credo davvero sia il momento di mettere un punto, di riflettere, partendo da noi professionisti della parola, perché se non capiamo che questo meccanismo ci porta alla deriva, come professionisti, la nostra cecità ci costerà cara. Non ci sono click che tengano.

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