Musica

Pietro Bianchi: 'Dimitri trasformava tutto in poesia'

Giovedì 13 agosto alle 20.30 a Verscio, il musicista e musicologo insieme a Roberto Maggini e Duilio Galfetti nell'omaggio al grande clown scomparso.

Pietro Bianchi e Roberto Maggini (www.teatrodimitri.ch)
11 agosto 2020
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Doveva essere un’intervista per lanciare l’annuale Omaggio a Dimitri, atteso giovedì 13 agosto alle 20.30 a Verscio. E invece è diventata una lezione di musica tenuta dal professor Pietro Bianchi, musicologo, musicista, produttore Rsi per oltre trent’anni ma anche cercatore d’oro, dove il metallo prezioso è la tradizione musicale ticinese recuperata negli anni e confluita nei libri, oltre che nei concerti. L’ultimo, che fa seguito a ‘Ticino punto e a capo’, s’intitola ‘Ticino punto e virgola’, segno che c’è altro da raccontare: «Mi sembra incredibile – spiega a laRegione Bianchi – in era digitale trovare elementi tramandati oralmente. Non ci avrei mai scommesso. Pensavo di aver concluso il mio lavoro e invece...». Il libro sarà presentato proprio giovedì, in occasione dell’omaggio a Dimitri in cui si ricompone un duo mai divisosi, quello con Roberto Maggini, che a Verscio diventa trio grazie a Duilio Galfetti. E se Dimitri non se ne fosse andato con eccessivo anticipo, magari oggi sarebbe un quartetto.

«Nei miei dieci anni trascorsi a Parigi per studiare musicologia – racconta Bianchi – Roberto già cantava con Dimitri. Era il 1972, li incontrai per la prima volta nel mio quartiere, al teatro Silvia Monfort», posto molto legato al mondo del circo dove i due alternavano serate di clown a serate di canto popolare. Una volta tornato in Svizzera, assunto dalla Rsi con la nascita di Rete Due, Maggini gli chiederà di prendere il posto di Dimitri, troppo preso con l’attività di clown per garantire presenza in musica. Con Bianchi ancora con un piede a Parigi e uno a Bellinzona, la collaborazione prende il via per continuare anche quando il musicista suonerà in altri contesti, dai Lyonesse a Nanni Svampa e in tutte le altre esperienze alternative al duo. «Quarant’anni d’attività senza mai uno screzio tra me e Roberto. Una cosa che nel mondo dell’arte è abbastanza inusuale».


Nell'atelier di Cadanza (Ti-Press)

'Ticino terra d'artisti'

Questioni cromatiche a parte, volendo trasporre il duo nel mondo circense, Bianchi si definisce il clown bianco: «Io vengo dal mondo colto della musica, mentre le origini popolari di Roberto sono state la sua università. È lui il vero rappresentante di questi canti». Il Duo ha negli anni Ottanta il suo momento magico. C’entra Marco Solari, oggi presidente del Locarno Film Festival, allora direttore dell’Ente Ticinese per il Turismo, strenuo sostenitore – nel progetto ‘Ticino terra d’artisti’ – di una necessità di cambiamento, perché il Cantone potesse una volta per tutte affrancarsi dal binonio zoccoletti-boccalino: «Marco era conscio di come i tempi fossero cambiati e ha creduto in noi come rappresentanti seri della cultura popolare, senza pon-pon alla camicia e altre ‘kitscherie’ varie, per intenderci. Grazie a lui abbiamo potuto suonare nei cinque continenti: un mese intero in America latina, tre settimane in Australia, nei paesi arabi, in ogni paese in cui il Ticino coltivava una politica di rilancio turistico. Quelle lunghe settimane food & beverage nei grandi alberghi della città accompagnati dai grandi chef, lo confesso, mi sono piaciute molto». Bianchi ha parole di stima anche per l’allora suo capo in Rsi Carlo Piccardi, «che mi lasciava fare queste cose, anche perché sapeva che per l’azienda era un ritorno d’immagine non indifferente». Sia nel ‘punto e a capo’ che nel ‘punto e virgola’ degli ultimi due libri, molte pagine contengono estratti da quei giorni di food & beverage: «Sono libri di canti e ricette. Ho chiesto ai grandi chef, raccolte anche con l’aiuto di mia moglie, che alle ricette si è quasi più appassionata di me».

Tutta questa musica recuperata e suonata ha sempre avuto un senso. In primis perché «su questo argomento è stato costruito il mio dottorato, la raccolta di circa seicento canti nero su bianco, registrati con materiale professionale proveniente dagli studi della radio, tutti catalogati, oggi potenziale oggetto di studio per le future generazioni»; e poi perché «all’inizio degli anni Ottanta in Ticino si percepiva l’urgenza di ascoltare la generazione nata alla fine dell’Ottocento, che allora esisteva ancora, e sapere cosa cantassero. In quanto tradizione orale, era urgente che qualcuno si rimboccasse le maniche e si mettesse a registrare e trascrivere. Anche se mi accorgo di trascrivere più ora che in passato, vuoi anche per il tempo che mi mette a disposizione il mio essere in pensione». La proposta del duo Maggini-Bianchi che ha girato il mondo è ‘Canti e danze popolari nel Ticino’. «Scelsi nel Ticino invece che del Ticino. Quel ‘del’ suonava un po’ supponente. Il ‘nel’ ci dava più libertà di introdurre nel repertorio cose lombarde o piemontesi. Nella cultura popolare ticinese c’è molto in comune con il resto del sud delle Alpi, sia nelle danze che nei canti. Quello che nel nostro cantone è particolarmente interessante è che qui può capitare di trovare versioni arcaiche. Se sai scavare bene, trovi cose vecchie anche di mille anni. Il titolo, da quanta gente ci ha sempre seguiti, ha funzionato».

Quella proposta, così come il rapporto con Maggini, non si è mai interrotta anche quando il lavoro di Bianchi sul canto popolare si è esteso a tutto il mondo. «Ma come interprete – specifica – mi sono sempre limitato a quello che conosco, e cioè la lingua del nostro popolo. È un principio generale. Non ho mai sentito europei cantare canzoni hawaiane, ed è bene che gli hawaiani cantino le loro canzoni e i ticinesi le proprie». E questo in nome dell’Antropologia di sinistra, scuola nata negli anni di studio diventata, per Bianchi, la regola: «Nell’Ottocento, i ricercatori erano figli di famiglie benestanti che si chinavano sulla poesia popolare quasi si trattasse di una stranezza. Mentre noi, a partire dal Sessantotto, con un idea più di sinistra, abbiamo preso a considerare il canto popolare come la voce delle classi meno agiate, dei contadini, degli operai. Con intento serio, non più con quell’aura di folklorismo quasi nostalgico, un quasi “era meglio prima”. Altroché! Questi canti sono spesso espressione di disagi sociali, non solo amorosi». È anche per questo che a Bianchi, quando suona in Svizzera tedesca, chiedono spesso come mai le nostre canzoni sono tristi: «Perché in realtà tutta la poesia popolare è tutt’altro che una festa. È una poesia di sofferenza, dalla quale ci si vuole sempre e comunque affrancare». 

'How musical is man?'

Concludiamo col suo ruolo di ricercatore: «Il mio compito è stato quello di trovare le antiche scintille di questa cultura, completarle con la rilettura di testi apparsi alla fine dell’Ottocento riguardanti la Lombardia e il Piemonte, testi non disponibili in Ticino, per capire di quale ballata, per esempio, si trattasse, per poi tornare dall’informatore e aggiornarlo sul proseguimento della mia ricerca. Quasi un collaborare tra il pescatore e il pesce, non sapendo mai bene chi fosse l’uno e chi fosse l’altro». Il tutto all’insegna del “Quanto musicale è l’uomo”, linea guida del suo maestro John Blacking, etnomusicologo e antropologo sociale britannico: «Diceva “How musical is man?”, e quale stupore crea ancora oggi l’eseguire queste cose, anche se ad alcuni possono apparire anacronistici!». E invece «capisci ancora quanta forza hanno, quanto possono stupire». Anche quando c’era Dimitri, che al duo con Maggini portava valore aggiunto: «Diceva sempre “Bisogna far ridere e far piangere il pubblico, bisogna essere capaci di rendere la tristezza ma anche la gaiezza, la felicità di un canto. Concetto bellissimo per uno come lui che trasformava in poesia tutto quel che toccava».

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