Musica

Ennio Morricone, musica delle immagini

Non solo musica giustapposta alle immagini, ma temi e sviluppi la cui sonorità inglobi le immagini. È l’uso metaforico del suono che Morricone ha inventato

A Locarno nel 2018 (Tipress)
6 luglio 2020
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È un fatto che il film sonoro abbia tracciato al cinema uno sviluppo in cui il parlato ha prevalso sul suono in quanto tale. Benché i teorici del cinema a cavallo degli anni venti e trenta ipotizzassero un uso della colonna sonora come intervento profondo di creatività musicale, l’evoluzione della cinematografia ha privilegiato l’aspetto dialogico relegando la musica in spazi d’azione più o meno marginali. Per decenni inoltre i musicisti associati alle imprese cinematografiche, soprattutto quelli di tradizione hollywoodiana, hanno mantenuto la loro espressione nell’alveo dell’estetica del poema sinfonico ottocentesco, trovando modo di adattarla alla drammaturgia delle immagini, ma sempre con una riserva di autonomia frenante rispetto alla presa di coscienza di uno specifico musicale-cinematografico compiuto. Il cinema hollywoodiano, pur ricco di sostanza sonora, non ha mai risolto del tutto il rapporto tra musica e sonorità, tenute rigidamente distinte nei loro piani di svolgimento. Un film hollywoodiano inizia sempre con un’ouverture chiamata ad accompagnare i titoli, con altri interventi musicali nei momenti cruciali dell’azione o nei cambiamenti di scena, separati dagli interventi sonori realistici spesso abilmente sfruttati (come fra i primi fu il caso dei film di Robert Mamoulian) ma non inglobati nel piano di sviluppo musicale del film.

Il significato dell’esperienza di Morricone si situa qui, nella presa di coscienza che, nella struttura narrativa del film, anche la musica che vi è associata deve seguire la stessa logica e perciò connotarsi con elementi di materialità sonora capace di rompere il velo della scontata timbrica orchestrale sempre al di sopra della realtà rappresentata, per mettersi in rapporto diretto con quella realtà. È vero che nessun film potrà mai rubare alla musica quello spazio d’intervento per cui essa si rivela insostituibile, spazio così ben delineato nelle parole dello stesso Morricone: “Io credo che la musica vada messa quando l’azione si ferma, si cristallizza: come nel teatro musicale ci sono il recitativo e l’aria, quando l’azione si ferma c’è il pensiero, l’interiorità del protagonista, non quando l’azione ha una sua dinamica di racconto”.

Per Morricone però, diversamente da altri compositori cinematografici, non si tratta semplicemente di scrivere qualcosa di equivalente all’aria, una musica che si giustappone alle immagini, ma di concepire temi e sviluppi la cui sonorità inglobi le immagini e il loro significato in un rapporto che non è più di semplice funzionalità ma che diventa di necessità, al punto che il film risultante non possa più essere concepito senza la relativa musica. È l’uso metaforico del suono che Morricone ha letteralmente inventato. Nell’esattezza della sua pregnante semplicità nulla potrebbe sostituire l’armonica a bocca che, come premonizione, percorre tutto C’era una volta il West, strumento dell’uomo della frontiera come lo è la pistola e il cavallo, e che quindi aggiunge una valenza narrativa alla funzione lirica o a quella drammatica in cui si fonde, nell’esito di lamento di invenzione non meno lancinante della Klage mahleriana o delle dolenti intonazioni monteverdiane.

Vi spicca poi la grande capacità di disegnare ampi squarci di canto spiegato, di temi patriarcali, dove la passione lirica si esplica in una solennità quasi religiosa, mistica: è la cifra sonora dell’epopea che accompagna gli uomini del West, che costruiscono la propria storia pur tra le contraddizioni e gli egoismi all’interno della logica di un progetto collettivo, così come la classe operaia in Novecento, la malavita degli emigrati italiani in C’era una volta l’America, i gesuiti difensori della civiltà degli indios in Mission, tutti in modi diversi pionieri partecipi dell’edificazione di un’umanità nuova di cui la musica di Morricone coglie la componente di luminosa speranza.

Altro ancora si potrebbe sottolineare di un’esperienza che è una lezione vivente di musica da film in una situazione in cui la riflessione critica su tale pratica rimane carente, sia su quello della critica cinematografica incapace di concepire l’apporto della musica al cinema al di là della funzione accessoria, sia della musicologia ancora succube della gerarchia dei valori che, collocandola come musica di scena al gradino inferiore delle pratiche artigianali e incapace di riconoscerla nelle sue specifiche necessità drammaturgiche, non è ancora riuscita a integrarla organicamente nelle proprie prospettive di ricerca.

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