Libri

Gian Mario Villalta, la verità della parola

Attenzione, sensibilità, concretezza autentica, elementi contenuti in 'Bestia da latte' (2018) e che si ritrovano anche nel recente 'L'apprendista'

6 giugno 2020
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Si sosta a lungo e molto volentieri nelle pagine narrative di Gian Mario Villalta. Succedeva nel romanzo precedente, Bestia da latte (del 2018) e se ne ha conferma nel recente L’apprendista (Sem, p.228, € 17). Le ragioni sono semplici e chiare. Villalta, più che al meccanismo di una trama e dei suoi eventuali sviluppi, si fa apprezzare per l’attenzione sensibile a una realtà di anche elementare concretezza autentica, cogliendone gli aspetti spesso minimali e offrendoli sulla pagina con quella che vorrei definire verità della parola e che, naturalmente, gli viene dal suo essere poeta.

In questo libro ci sono due protagonisti, per niente eroici, ai quali ci si affeziona. Si tratta di Fredi, un vecchio che fa il sacrestano, e Tilio, di poco meno anziano, che lo aiuta in qualità, appunto, di “apprendista”. La loro terra è la stessa dell’autore, friulano di Pordenone, e leggendolo, per il sentimento del tempo mutante e della lingua, dei luoghi e di una certa realtà sociale, non si può non pensare a un maestro come Luigi Meneghello, veneto del trevigiano come Andrea Zanzotto, altro grande esempio per Villalta. 

Dunque, Villalta ci racconta della vita in una chiesa di paese: ecco la condizione di Fredi e Tilio (sempre indicati con questi loro diminutivi popolari), di cui seguiamo tratti di una quotidianità dolcemente anacronistica, ma della cui vicenda passata, quella che li ha condotti fin lì, riappaiono nel romanzo, sempre con maggiore rilievo, le vicende che ne hanno segnato, determinato la fisionomia. Ecco allora la storia familiare di Tilio: la moglie che non c’è più e una badante (non solo), Veronika, e poi il figlio. Ecco il passato complicato di Fredi, il padre fascista, la temporanea carriera militare e il trasferimento in Giappone. Si tratta di un cumulo di circostanze intrecciate nella narrazione come residui ineliminabili, tracce che hanno creato percorsi e fisionomie delle due figure. E passo dopo passo ci sembra di conoscerle davvero, nella realtà anonima del loro esserci, che infine è quella della gran parte degli umani.

L’autore si muove con estrema libertà nel proporci persone e ambienti, personaggi secondari, sorprendenti proprio per la loro normalità solo in apparenza insignificante, con un luogo privilegiato in cui Tilio e Fredi agiscono, cioè quello della chiesa, che appare come il più tradizionale ambiente d'incontri di una comunità paesana peraltro sempre meno aggregata. E ci offre il vantaggio di una scrittura, di una lingua pastosa, che appare indubitabilmente come la parola della stessa terra e dei personaggi che mette in (esiguo) movimento. Ma il pregio originale del romanzo è anche nel suo naturale (e dunque non programmato a freddo, ma necessario internamente) porsi in controtendenza, rispetto a una narrativa contemporanea sempre più dominata da uno stucchevole qualunquismo linguistico e da un meccanico sviluppo di trame legate a una realtà del tutto superficiale (con prevalenza conformistica di genere giallo-noir...). Per queste e altre ragioni che il lettore potrà ben scoprire in proprio, ci si ambienta con immediata soddisfazione e in riflessiva pace nelle pagine di Villalta.
 
 

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