Culture

Letteratura, ‘Il settebello del nonno’ di Doris Femminis

Un racconto della vincitrice del Premio svizzero di letteratura pubblicato sul numero 14 della rivista Viceversa

Doris Femminis (© Yvonne Böhler)
6 giugno 2020
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Mio nonno Rinaldo nasce a Faedo un giorno d’aprile del 1914. La famiglia è numerosa, lo spazio esiguo, la povertà li attende.
Dalla madre impara a non mettersi in avanti, a fare senza dire, che la modestia è una virtù e, quando un blagone comincia a strombettare «io, io, io», il silenzio che lo circonda è alla taglia del suo ridicolo.
Per crescere i figli spacca legna e costruisce muri e, negli anni della pensione, mi insegna a giocare a scopa, in che luna si taglia un olmo e quanto sale mettere nella polenta. Il valore di un uomo si vede dal suo agire, ma il potere del settebello me lo spiega con le parole.
Durante i temporali della Val Bavona, tra le pareti ripide e immense che fungono da imbuto ai torrenti, a Faedo ce ne stiamo rintanati davanti al fuoco ad abbrustolire pane o formaggio. Ogni tanto il nonno rompe la noia, si stacca dal camino, infila la mantellina e parte sotto agli scrosci a controllare se il riale getta (probabilmente a fumare una sigaretta di nascosto, pensiamo ridacchiando). Torna zuppo un’ora dopo e accenna un sì che calma la nonna, l’acqua scorre, nessuno scherzetto di dighe e crolli si trama sopra le nostre teste, possiamo dormire tranquilli.
Il nonno muore nel 1986, forse convinto che l’importanza di quelle ispezioni l’abbiamo capita, ma chissà se un giorno di pioggia ha mai pensato di chiedere a un nipote di seguirlo e, sopra allo strepito del riale grosso da far paura, ha mai gridato che l’acqua di Foioi deve scendere abbondante e nera, che sennò è meglio filare. Chissà se quell’uomo, che si è figurato la possibilità di una diga a ogni temporale della sua vita, ha mai puntato gli occhi in un figlio e, con la serietà usata per il settebello, le lune e il sale nella polenta, ha mai speso quelle due parole, di controllare se il riale gettava, o ha creduto che vederlo uscire tra le sferzate del vento dovesse bastare a stamparci l’incombenza nel cuore.
Il primo settembre del 1992 il sole illumina un cielo cristallino, lavato da giorni di tempesta.
La notizia che una frana si è abbattuta sul villaggio di Faedo arriva in fine mattinata. La voce della radio aggiunge che si cercano i dispersi. Durante la notte, dalle cime a strapiombo che ornano la valle, l’acqua del cielo ha trascinato con sé ogni cosa pronta a staccarsi dalla terra; i riali sono traboccati dai loro letti, il fiume ha deviato il suo corso portandosi via il ponte di Foroglio, le campagne e la carreggiata sono striati dagli spurghi della montagna, gli abitanti gironzolano increduli e salutano appena.

M’incammino in una processione che sa di funerale finché, dietro la curva, avvolto in una luce che è più bianca di ogni luce mai vista, inaspettato compare Faedo, ricoperto da una massa di pietre e torrenti. Della ventina di case e stalle una parte è scomparsa, un’altra affondata tra i blocchi. Ruscelli sboccano dalle finestre.
Guardo in su: le creste svettano nel limpido, i camosci corrono sui pendii.
Nei miei occhi Faedo è ancora verde, ben piantato tra le rocce e il fiume, placido ai piedi della spaccatura in cui scorre il riale, i bambini in corsa tra le carraie, la biancheria stesa ad asciugare.
Quando apriranno il ponte, correrò a sbirciare dalla porta che ogni mattina ho attraversato con la tazza del latte, mi fermerò ad accarezzare un muro rimasto in piedi, camminerò tra le rovine e sarà triste incappare nella collezione di fumetti, in un anatroccolo di plastica, in gomitoli di lana srotolati attorno ai sassi.
Per ora, la colonna di soccorso cerca i dispersi, Anita e Sergio.
Franco, in pantaloncini corti e stivali, va su e giù davanti al cumulo di macerie che era la sua casa, in attesa di trovare la moglie e il figlio.
Che mia nonna sia viva sembra normale. A Fontanellata scalda caffè per tutti.
Lo sbotto si è preparato la sera prima, con il riale di Foioi che ingrossa da giorni per le quantità d’acqua che gli scorrono dentro dalle cime.
Forse è stato un laricetto elastico, uno di quei semi testardi che si incrostano a un pugno di terra, cresciuto per miracolo su una cengia e travolto dall’impeto delle acque; forse è stato quel morso di resistenza a cadere di traverso, a incunearsi, a catturare i sassi che rotolano nella furia del torrente, a offrire a un tronco più solido la nicchia in cui annidarsi e continuare a rinforzare una diga che ingrossa, ingrossa, ingrossa, fino a formare un’enorme pancia pronta a scoppiare sopra a Faedo dove, mentre la diga gonfia e il riale di Foioi ha smesso di gettare, la nonna s’inventa una cena per me e mio fratello e la mangia in silenzio, che salire in valle con quel diluvio non si può, e forse con Anita recitano il Rosario da sole, perché Maria è scesa a Cavergno convinta da un figlio, e intonano pure due voci alla Vergin Dolcissima, la nonna in soprano tremolante, Anita da buon contralto, ma a volte il Rosario si può saltare e forse quella sera lo saltano, e la zia viene con i bambini dopo cena per stare in compagnia e, visto il tempaccio, Anita cucina un risotto per il marito e il figlio e se lo mangiano nei piatti di vetro blu, al calduccio e così, mentre la diga si prepara a svuotare il canale come uno sciacquone, a Faedo si cantano odi, si mangiano risotti, si bevono caffè, e la zia tornando a Fontanellata con i bambini, dal ponte mostra loro com’è cresciuto il fiume in quel poco tempo, che scorre come una lava bruna e minacciosa, poi li infila con un bacio sotto ai piumini, buonanotte tesori e la nonna va a letto pure lei, che cosa vuoi fare una sera così, se non farla passare veloce e magari pensare un po’ al nonno e alla sua mancanza, e dopo un ultimo commento sull’acquazzone che sembra calmarsi, anche Franco va a dormire, che è stanco, e Anita decide di accompagnare Sergio nella sua camera sopra la chiesa.

E allora la diga si spacca e sbottano acqua e pietre che falciano alberi, raschiano pareti, sgomberano le gole e trascinano tutto a valle. Settantamila metri cubi di vomito grigio slittano su Faedo dividendosi in lingue, sfasciano case e stalle che finiranno mescolate e introvabili, una piccola lingua sfonda la parete del bagno e scende in cucina a fracassare tutto, sotto ai piedi della nonna che è nel suo letto e trema e vede il cumulo di massi e flutti salire davanti alla finestra, e forse prega nel frastuono, forse no, e vorrebbe fuggire, ma nelle scale c’è il fiume, un mulinello nero in cui vorticano spazzolini da denti, bicchieri e mobili che monta all’altezza dell’orologio del salone e lo ferma nel fango alle dieci e dieci che pare in croce, mentre una lingua grande s’insinua a lato della chiesa e trova Anita e Sergio che tentano di aprire un ombrello davanti alla porta di casa.

A Fontanellata la zia esce sul balcone e sente un rombo. Il marito assonnato dice è un tuono, non ti preoccupare, ma il rombo continua e la zia va a vedere e nei bagliori scorge Faedo coperto dalla frana, travolto e irriconoscibile, che è Faedo perché si sa che è sempre stato lì (ma il concetto di «sempre» quella notte si incrina), tutto grigio e bianco di spume e una lucina lampeggia lì in mezzo.
La zia corre ad avvertire che c’è vita.
Quella sera si festeggia il compleanno di Plinio; un boato ha zittito l’allegria e sono usciti tutti fuori. Racconta la zia che Faedo è sommerso da una frana gigantesca, una montagna di sassi dalla quale appena emergono i tetti, ma una lucina lampeggia, lampeggia… Gli uomini dicono ti sei solo spaventata, non è successo niente, e lei vuole andare, no vanno loro, tu stai qui, e iniziano con i cosa fare, come fare, se fare, e intanto lei si toglie le scarpe e fila via nella notte illuminata dai lampi. Non ci pensa due volte ad attraversare il ponte che traballa sopra al fiume in piena, si arrampica sui macigni, nel tumulto di quel rotolare di pietre che cozzano, tra i torrenti che venano la notte di bianco e il buio che esalta il fragore dell’acqua.
La frana arriva all’altezza delle camere. La zia davanti alla finestra, mamma… La mamma in piedi dietro le inferriate, aspettavo la morte…
Esce dal solaio e i massi sono lì come un tappeto. Scende nel pandemonio senza cadere; a settantadue anni e l’artrosi alle ginocchia scende come una bambina, ed è così che lascia la sua terra.

A Faedo non tornerà mai più ma, negli anni in cui resterà sommerso, pensa al giorno in cui riempirà nuovi armadi e compera un servizio di porcellana a un venditore ambulante, per non deluderlo poveretto, un servizio per quando tornerà a Faedo, dove i piatti erano sbroccati e adesso saranno belli, e non dirà mai una parola, che lei è vecchia e sopravvissuta e Anita e Sergio no, cose sull’ingiustizia che ha capito da un pezzo, niente sul senso del male e se ne ha uno e a chi attribuirlo, forse ogni tanto un commento sui meno fortunati, che lei una casa ce l’ha ancora e tutti i suoi figli, perché si sappia che quel silenzio sulla frana è alla misura giusta, e il servizio di porcellana (chissà dov’è finito) ha dato da mangiare alla famiglia del venditore gentile, che passare di casa in casa a farsi trattar male non è un bel mestiere, e niente sul nonno che non era uno da prediche e se aveva detto o meno di sorvegliare il riale, che magari un’ora prima gettava benissimo e mentre cuoceva il risotto o veniva su il caffè si era riempito, e mia nonna, che non spendeva parole inutili neanche lei, figuriamoci se avrebbe osato dire che la modestia uccide, quando si sa che dovrebbero essere la boria e la vanità.

Ogni anno, il 31 agosto, si ricorda quella notte, Anita, Sergio e poi la nonna e Maria. Ogni tanto si aggiunge un nome. Faedo è di nuovo verde, le creste svettano nel limpido, di certo i camosci corrono sui pendii. Manca qualche casa ma i più non lo sanno e, appena piove, la valle si svuota.

L'autrice

Nata nel 1972 a Cavergno (Vallemaggia), Doris Femminis è infermiera psichiatrica di professione. Dopo la formazione a Mendrisio, per otto anni è stata capraia in Val Bavona, attività che ha abbandonato per trasferirsi a Ginevra dove ha approfondito gli studi. Attualmente lavora come infermiera a domicilio nel Canton Vaud. Nel 2016 ha pubblicato il suo primo romanzo, Chiara cantante e altre capraie (Pentàgora) a cui ha fatto seguito, nel 2019, Fuori per sempre (Marcos y Marcos) che le è valso un Premio svizzero di letteratura 2020.

 

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