Culture

Glauco Mauri, i Karamazov di figlio in padre

22enne, nel capolavoro di Dostoevskji, fu il fratellastro-servo Smerdjakov; 89enne, stasera e domani a Bellinzona, vestirà i panni del capofamiglia (l'intervista)

Questa sera e domani al Teatro Sociale di Bellinzona (foto: Manuela Giusto)
18 febbraio 2020
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Su di un ipotetico Netflix della Russia del 1880 sarebbe stata una serie di grande successo. Fu così, a singole puntate uscite tra il gennaio del 1879 e il novembre del 1880 sul ‘Messaggero russo’, che fu pubblicato ‘I Fratelli Karamazov’ di Fëdor Dostoevskij, opera ritenuta il punto più alto della sua produzione letteraria. Lo scrittore morirà quattro mesi dopo la pubblicazione, lasciando incompiuto l’intento di farne la prima parte di una più complessa biografia di uno solo dei personaggi, ma la storia del conflitto tra un padre e i propri figli, che sfocia nel parricidio e nell’errore giudiziario, basterà a farne uno dei più drammatici viaggi «dentro quell’essere meraviglioso e a volte orrendo che è l’essere umano».

Sono parole di Glauco Mauri, ottantanove anni «superati da cinque mesi», una vita consacrata al teatro in nome e per conto, soprattutto, di «Dostoevskji, Beckett e Shakespeare, ai quali devo lo spunto per provare a capire la vita». Le vicende di Fëdor Pavlovic Karamazov (interpretato da Mauri), degli figli Aleksej (Pavel Zelinskiy), Dmitrji (Laurence Mazzoni), Ivàn (Roberto Sturno) e dell’illegittimo Smerdjakov (Gabriele Anagni), approdano al Teatro Sociale questa sera e domani alle 20.45, su riduzione dello stesso Sturno e per la regia di Matteo Tarasco. Completano il cast Paolo Lorimer (Starec Zosima), Maria Chiara Centorami (Katerina Ivanova) e Viviana Altieri (Grušenka).

«Abbiamo una certa dimestichezza» dice il grande attore italiano. «Di Dostoevskji la nostra compagnia ha già portato in scena ‘L’idiota’ nel 1993, con mia regia nella riduzione di Furio Bordon e con protagonista Roberto Sturno. E nel 2005, con mia riduzione e regia, ‘Delitto e Castigo’, io nei panni di Porfirij e Sturno in quelli di Raskòlnikov». ‘I Fratelli Karamazov’ di Bellinzona è frutto della collaborazione tra la Compagnia Mauri-Sturno e la Fondazione Teatro della Toscana.

Nei panni dell’uomo “abietto e dissoluto, ma anche dissennato”, come da identikit di Karamazov padre fornito dal suo creatore – in questa “comédie humaine alla russa, dove bestie umane si agitano sulla scena del mondo”, come da sintesi del regista – c’è Glauco Mauri che per la legge dei corsi e ricorsi storici, e della cronologica intercambiabilità tra realtà e finzione, all’età di ventidue anni vestì i panni del fratellastro-servo Smerdjakov, nella versione del 1954 di Andrè Barsacq a dirigere, tra gli altri, Remo Benassi, Lilla Brignone ed Enrico Maria Salerno.

‘Non giudica, cerca di comprendere’

«Ho detto e ho scritto più volte che i Karamazov siamo anche noi», spiega Mauri. «Certo, non è il clima pieno di delitti, atrocità, bugie, odio, furti dei Karamazov, ma anche la nostra è una società poco incline a comprendersi e ad aiutarsi, una società in cui l’atto d’amore può divenire violenza, sintomo di grande atrocità umana. Ecco perché credo che possa servire fare ancora questo Dostoevskji in teatro». Forse anche per questo motivo, quasi un secolo e mezzo dopo, e a sessantasei anni dalla prima interpretazione, il romanzo appare agli occhi di Mauri «così come mi appariva nel ‘54, fresco, nuovo. Dostoevskji ci trasmette una meravigliosa certezza, e cioè che l’uomo ha la possibilità e la capacità di comprendere gli uomini». Questo perché «l’autore non giudica mai, e non giustifica, ma cerca sempre di comprendere».

Attingendo dal romanzo, l’attore estrae una battuta che dice avere accompagnato da sempre il suo lavoro: «Sono parole di Aleksej che consola il fratello Dimitri, dolorante per le azioni scorrette commesse. Dice: “Satana e Dio sono sempre in lotta fra di loro, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”. Come non avere pietà degli uomini i cui cuori sono dilaniati continuamente dal bene e dal male. Così la pensava Dostoevskji, i cui personaggi, anche quelli più terribili, si portano dentro perlomeno il senso della pietà per la propria cattiveria».

‘Preferisco parlare agli uomini’

Glauco Mauri è il teatro. Le sue esperienze televisive si fermano al 1979, dopo alcune apparizioni nella grande prosa Rai, agli albori della televisione con il teatro portato sul piccolo schermo in rigorosa diretta, in nome di un ‘buona la prima’ sempre meno attuale; le apparizioni cinematografiche, allo stesso modo, non vanno oltre il 1977, quando fu padre del Nanni Moretti di ‘Ecce Bombo’ e, due anni prima in ‘Profondo Rosso di Dario Argento, lo psichiatra Giordani, brutalmente assassinato contro un tavolino (messo all’asta qualche anno fa). «Sì, gran cosa» commenta l’attore parlando della prosa Rai. «Per carità, io non sono una persona che dice che il passato è sempre meglio del presente, tutt’altro. Certo, finché c’erano grandi attrici e attori che recitavano in tv cose importanti, a me è piaciuto e mi è servito. Oggi in televisione vedo cose inenarrabili, al di là del bene e del male».

Su cinema e televisione, tirando un bilancio: «Dirò la verità, loro mi hanno cercato poco e io non li ho cercati per nulla. La macchina da presa non mi ha mai emozionato, mi emoziona molto di più il silenzio o l’agitazione di un pubblico che devo domare. Mi è sempre interessato di più parlare agli uomini anziché alle macchine».

Nel pieno della sua «veneranda età», Mauri è reduce dal terzo e ultimo, in ordine di tempo, Re Lear, a Roma e a Firenze per la regia di Andrea Baracco, lodato dalla critica italiana unanime. A Shakespeare l’attore tornerà il prossimo anno. Per riassumere, invece, una carriera nata tra i fumi della Seconda guerra mondiale e una vita d’artista che ha attraversato Prima e Seconda Repubblica, Mauri si affida alle parole di un irlandese: «È una battuta di Samuel Beckett che mi è rimasta impressa sin da ragazzo. “Tutte le arti contribuiscono all’arte più grande di tutte, quella del vivere”. Ecco, io credo che il teatro sia un arte che può e deve contribuire all’arte del vivere».

‘Potevo essere tutto, anche un poeta’

Quasi sedicenne, l’esordio nella compagnia di soli uomini della parrocchia di Sant’Agostino a Pesaro, il 1° gennaio 1946: «L’ho amato, il teatro, perché sul palcoscenico potevo essere tutto quello che non ero nella vita. Nella vita ero grasso, avevo i denti storti, non brillante, e in teatro potevo essere tutto, anche un poeta». L’infatuazione iniziale, l’accademia e una giusta presa di distanze: «Sentivo che il teatro serviva a dare alla gente non dico cultura o poesia, ci si riesce solo di rado, ma perlomeno ad arricchire di umanità chi ci veniva e ci viene ad ascoltare. Questo mi ha dato e mi dà la forza e la gioia di raccontare ancora delle favole alla mia età. Credo che nel mio piccolo il mio lavoro possa servire non tanto a far dire che recito male o bene una battuta, quanto a far comprendere che come interprete io posso ancora regalare al pubblico la poesia e l’umanità dei grandi autori che hanno scritto per il teatro e per gli uomini».

Biglietti presso l’Ufficio Turistico di Bellinzona (tel. 091 825 48 18), su www.ticketcorner.ch e relativi punti vendita.

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