Culture

Nella pozza con l’Andina, parlando del Felice

Incontro con il malcantonese che scrive della Val di Blenio e fa incetta di premi, dallo ‘Schiller’ al Gambrinus ‘Giuseppe Mazzotti’ che fu di Terzani e Sepúlveda

Fabio Andina, 'La pozza del Felice' (Rubbettino, 2018)
16 ottobre 2019
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“Amen, ripete la giovane barista, mettendogli sul tavolino laRegione e una bustina di tè di menta. Il Felice comincia a sfogliare il giornale leccandosi un dito e partendo dall’ultima pagina come fanno gli anziani”. Se anche non ci avesse citati, il Fabio Andina l’avremmo intervistato comunque. Il suo romanzo ‘La pozza del Felice’, duecentonove pagine stese in sette giorni in nome dello ‘scrivo come parlo’, a quasi un anno dalla pubblicazione per l’italiana Rubbettino ha vinto (in ordine di apparizione) uno dei premi svizzeri più ambiti – il ‘Terra Nova’ della Fondazione Schiller per gli autori emergenti – e un premio italiano che in passato fu anche di Tiziano Terzani e Luis Sepúlveda, il Gambrinus ‘Giuseppe Mazzotti’ per la letteratura di montagna, annunciato la scorsa settimana e la cui premiazione si terrà il 16 novembre prossimo a San Paolo di Piave, in provincia di Treviso.

Per dirla tutta, ‘Il Felice’ si è pure guadagnato un invito alle Giornate letterarie di Soletta, un secondo invito al Festival di letteratura svizzera di Sion e l’edizione tedesca per la zurighese Rotpunktverlag, Edition Blau, in uscita nella primavera del prossimo anno.

‘La pozza del Felice’ è ormai da tempo ‘Il Felice’, così come ‘Nel blu dipinto di blu’ è diventata ‘Volare’. Come accade per i ritornelli, anche i personaggi dei romanzi a volte si prendono il titolo dell’opera intera; e anche per i relativi autori arriva quel momento in cui «la gente mi dice “Oh Fabio, sai che ho comandato il Felice?”, oppure “Ma poi com’è che va a finire il Felice?”». Dopo aver promesso allo scrittore la totale discrezione sui segreti del Felice – «È capitato che ad una presentazione io chiedessi, come faccio di solito, se qualcuno volesse fare una domanda e una signora chiese il perché del finale, facendo calare il gelo in sala» – proviamo a calarci nella pozza con lui.

Per strada (Sulla strada)

Storia di montagna e di montanari, come da seconda di copertina, ‘La pozza del Felice’ è la storia di un giovane uomo che fugge dalla città per ritirarsi in alta montagna, dove stringe amicizia con il Felice, un novantenne la cui filosofia di vita è “se la batteria non mi si scarica stanotte, allora ci vediamo domani, se no amen”, uno che “quando crepiamo diventiam tutti del compostaggio, tutti uguale, che il sangue è rosso per tutti, servi e padroni, belli e brutti”; uno per il quale “camminare non è uno spostamento, ma un passatempo’. E così, in modalità on the road non da highway californiana ma da sentieri della Val di Blenio, i nomi, i volti e le voci di Leontica scorrono quotidianamente nel percorso da e per la gelida pozza (poco sotto l’Alpe del Gualdo), la “macchia nera che parlotta senza sosta” nella quale il giovane fuggito dalla città per ritrovare se stesso e il novantenne giovane dentro che nasconde un piccolo, grande segreto, si calano nel freddo dell’alba, ad ogni alba, per un bagno purificatore che ha qualcosa di mistico e di profondamente umano allo stesso tempo.

Benvenuti a Leontica

Perché un malcantonese scrive della Val di Blenio? Perché nel 1972, anno della sua nascita, i genitori hanno comperato una baita a Leontica. «Ci vengo appena posso, per restare da solo, stare tranquillo e scrivere. Leontica è la mia seconda casa» dice Fabio. Se i personaggi sono di fantasia, il Felice è invece persona realmente esistita e scomparsa quasi cinque anni fa. «Chi è della zona e l’ha conosciuto, sa di chi parlo. Chiaramente c’è chi si può immedesimare in questo o in quel personaggio. Mi capita di incontrare per strada qualcuno che mi dice “Ma la maestra Sabina, sono io per caso?”. Succede ogni volta che torno qui. Magari qualcosa c’è, perché a volte si parte da personaggi reali, si cerca di costruirli, trasformarli, fare un puzzle di persone, cose così».

Se ci sia davvero, in paese, l’originale poco importa. Nel ‘Felice’ dell’Andina i personaggi sono nitide istantanee con tanto di didascalia: il Floro “che sembra a un Gesù Cristo venuto fuori male dal pennello di un pittore ubriaco”, il Kevin che in Romania si era rifatto i denti perché “voleva avere il sorriso come quelli di Hollywood”; il Nathan “soprannominato Natel” da uno che “dei nomi americani non ci capisce niente”, la Serafina e l’Olimpia, sorelle gemelle che “la loro unica differenza sta nella gobba”, la Giulia che ha le felpe di tutte le rock band, l’Orazio Picasso, il paesaggista, la Muta, “un’eremita immusonita”. E tutti gli altri.

Il punto, la virgola e poco più

Se nel descrivere la deriva di un divorzio (che è anche il suo, nel romanzo ‘Uscirne fuori’, Adv, Lugano, 2016) l’Andina veniva paragonato a Charles Bukowski, nel ‘Felice’ è lui per primo a fare il nome di Cormac McCarthy, scrittura ridotta ai minimi termini, il punto, la virgola, il punto di domanda in pochi casi e nulla di più. Uno che «se io ci metto una pagina per dire una cosa, lui la stessa cosa la dice in mezza». Zero compiacimenti, zero sentimentalismi, zero intrusioni. Se della nostalgia arriva dal ‘Felice’, è solo nelle ultime cinque pagine; tutto il resto – sensazioni, ricordi, descrizioni, commenti – è affidato agli oggetti, ai modi di dire, ai luoghi e ai dialoghi (anche qui senza il becco d’una virgoletta). La scrittura documentaristica di Andina è la chiave per entrare nella storia senza che nessuno ti dica da dove ci devi entrare e, una volta entrato, da che parte devi andare. Anche quando si ride, come al bar della Candida, dove ci si chiede se un mulo possa prendere la mucca pazza, o dove si guarda lo sci dal televisore in sala: “Citu che vien giù la Lara”, e via alle disquisizioni sul patriottismo, se sia più attaccata alla maglia la Gut (che «la ganasa troppo») o la Figini («quella sì che era ticinese»); esilarante, poi, la denuncia sociale della scarsa consistenza della Caotina lamentata dagli italiani che vanno a sciare, che il cucchiaino “non sta in piedi neanche a pagarlo” (vogliamo dar loro torto?). Anche qui, al Bar Gallo Cedrone, si deve fare il giusto lavoro di astrazione per capire che è l’Andina a farti ridere, e che in quel bar non ci sei mai stato.

California dreamin’

«Sono partito con l’idea di essere una telecamera che segue il Felice durante le giornate. È il mio stile, è venuto così, non l’ho cercato», spiega l’Andina. «Nei giorni della bozza non ho pensato a nessuna implicazione, ero partito con l’idea che quello che avevo scritto fosse un romanzo di montagna». E togli togli, alla fine ne è uscito qualcosa di più. Quello stile, la sensazione è immediata, sa di cinema. Qualcosa c’entrano i suoi tre anni a San Diego e gli altri tre a San Francisco, dove si è laureato in «Cinema con l’enfasi in scrittura della sceneggiatura». Volato in California nel ’95 per studiare l’inglese, Fabio ci è rimasto, attratto dal cinema e dalla letteratura americana. «La Beat generation è stata la mia prima grossa influenza letteraria. Quando arrivai negli Stati Uniti non avevo ancora letto un solo romanzo. A 22 anni presi il corso di psicologia della letteratura nel quale il professore puntava su quella specifica corrente. A San Francisco ho conosciuto e frequentato per un certo periodo il poeta della Beat Loris Ferlinghetti, che oggi va per i centouno. È stata per me una grande influenza letteraria quel modo di scrivere a flusso, senza troppo pensare a quel che si sta scrivendo, buttando giù quel che la mente detta».

Felicità minimalista

Nell’esternare una soddisfazione che ha lo stesso minimalismo della sua scrittura, l’Andina parla dei premi: «Il primo (lo Schiller, ndr) è stato totalmente inaspettato, perché (come disse Handke, Oscar 2019 per la letteratura, ndr) non sapevo avessero preso in considerazione il mio romanzo. Per il Gambrinus, invece, sapevo che la Rubbettino lo aveva proposto». Le centocinquanta pagine di bozza sono state scritte «in sei-sette giorni, poi le ho presentate a diversi editori, tra i quali la Rubbettino che ha comunicato la sua disponibilità a pubblicare. Da lì abbiamo lavorato assieme quasi due anni, portandolo a duecentodieci pagine. Mi piace dire che non hanno imposto nulla, come fanno certi editori. Hanno solo consigliato, spingendomi a riscrivere qualcosa sino ad aggiungere un centinaio di pagine, per poi scremare». In più, nessuna richiesta di pagarsi il canonico ‘tot di copie’: «Sì, ci tengo a specificarlo. Molti pensano “Ah, allora vuol dire che ti gira bene, che hai soldi per promuoverlo”. Io non ci ho messo un soldo. Molti credono che si vada dall’editore, si consegnino la bozza e i soldi e loro ti pubblicano. Non è così».

Ticino turismo

Va bene Andina, del finale non sveliamo nulla. Ma la curiosità non è solo donna: «Sì, è intuibile che quello che si accompagna al Felice è un uomo sulla quarantina scappato dalla città, solo, senza figli o moglie. Se mi parli di autobiografico ti dico che una parte di me sì, sta lì, e un’altra è trasportata sul Felice, e cioè l’astemio e il vegetariano sono io, mentre la ricerca di solitudine in cima alla montagna, l’ascoltare il silenzio, nel buio, invece sono reciproci». Perché il giovane e l’anziano, fuori dalle pagine, si sono conosciuti davvero: «Mi sono avvicinato a lui ancor più nel momento in cui scrivevo, nei tre anni vissuti in pianta stabile a Leontica. Tante scene in cui si mangia assieme, per esempio, sono vere».

‘La pozza del Felice’, ci giochiamo dei soldi, farà per la Val di Blenio più di un’agenzia di marketing turistico. Chiedere al settantenne piemontese andato a Leontica a cercar la pozza e le case: «È stato qui una domenica, ma io non c’ero. Mi ha inviato le foto, anche se la casa non era quella del Felice, ma quella del Basilio Coniglio». E la pozza? «Quella esiste, è davvero quarantacinque minuti sopra Leontica. Ci ho fatto il bagno anche a Capodanno, spaccando il ghiaccio».

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Premio Gambrinus 'Giuseppe Mazzotti', motivazione:
“Libro raro di un’estrema semplicità che coinvolge il lettore nella vita semplice del protagonista: Felice, un vecchio che trascorre i suoi giorni immutati in una valle delle Alpi svizzere dove la natura è ancora selvatica e gli uomini sono ancora legati a tradizioni secolari. La bellezza delle grandi cime, dei boschi e dei sentieri scoscesi si intreccia ai gesti semplici di Felice e degli altri abitanti del villaggio. Il narratore è catturato dal fascino di quel mondo fuori dal tempo che riesce a trasmettere attraverso una prosa che nonostante appaia spoglia nella sua sobrietà riesce a mettere in piena luce i luoghi e le persone”.

Premio Terra Nova della Fondazione Schiller per gli autori emergenti, giudizio della giuria:
"L’impronta stilistica del romanzo è ben riconoscibile e volta a ridurre distanza fra scritto e orale, e in generale fra lettore e libro, con una scrittura vicina al parlato, dove si riconoscono dialettismi, elvetismi, oltre a esitazioni o interiezioni tipiche dell’oralità. Ne risulta una lettura avvincente, lungo pagine in cui – si potrebbe dire – non succede nulla e proprio per questo succede di tutto. La pozza del Felice è insomma un libro sorprendente e inatteso; di certo, per quanto riguarda la Svizzera italiana, una delle pubblicazioni più interessanti degli ultimi anni".

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