Culture

Le lingue della 'Straniera'

Babel Festival 2019, incontro con la scrittrice e traduttrice Claudia Durastanti: una lettera d'amore a mia madre

16 settembre 2019
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«Non lo considero un memoir». Parla della sua infanzia, della sordità dei suoi genitori, della sua crescita di bambina nata a Brooklyn e cresciuta in Basilicata. Parla della sua vita. Ma per Claudia Durastanti il suo ‘La straniera’ (La Nave di Teseo, 2019) non è un memoir: «È una lettera d’amore a mia madre», ci dice sorridente e litigando con le zanzare di fianco alla Foca che spruzza acqua in una serata odiosamente umida per essere metà settembre. Ha concluso da poco il suo evento a Babel, il Festival di letteratura e traduzione giunto alla quattordicesima edizione, chiudendo una sorta di cerchio. Perché il suo ‘La straniera’, finalista in cinquina al Premio Strega, è uno dei più recenti esempi di romanzo fondato su più lingue, e di conseguenza su più linguaggi. Un romanzo a più livelli dove tante lingue si intersecano, si completano, si formano e crescono. Sì, proprio come una lettera d’amore.

La lingua dell’amore

«L’amore tra sordi non esiste, è una fantasia da udenti», scrive a un certo punto. E lo conferma: «Se si frequentano comunità di sordi – spiega – si avverte che c’è una fisicità che si esprime in maniere diverse, e sicuramente per me è stato disorientante confrontarmi con questo aspetto». Nel senso che «l’educazione del corpo da una madre che viene percepita come puro istinto, e non come mediazione linguistica, mi ha portato ad avere una lingua, mentre mia madre ne aveva una sua». Ed è «per questo motivo che nei sordi si verifica questa irruenza o, banalmente, trasmissione del desiderio non attraverso il vocabolario. Per questa difformità». E prosegue sul filo dei ricordi affermando che «una delle assenze nella vita di mia madre è stata appunto il come trasmettere il sentimento di amore. E di riflesso io mi sono sempre chiesta se mia madre e mio padre non si siano mai detti ti amo perché fondamentalmente non si amavano o perché non venivano da esperienze di letteratura o un sentirlo dire che poi li avrebbe resi propensi all’amore? Questo sentimento non esisteva, o non esisteva la loro capacità di nominarlo? Quando loro si son lasciati, lo ricordo nel libro, mi sono chiesta come si poteva dissolvere un legame d’amore che il linguaggio non ha mai vincolato».

La lingua parlata

Nata a Brooklyn da famiglia italiana, Durastanti si è subito confrontata con quello slang tipico italo-americano composto da accenti dove non devono esserci, italianizzazione di termini inglesi. Poi succede che arriva il trasferimento, e da Brooklyn finisce in un paesino in Basilicata, dove non si parla l’italiano, ma il dialetto. Bello stretto, aspro e sincero. «Un dialetto che ho vissuto in modo subalterno, era il codice primario di quella comunità. Noi abbiamo sempre scelto di parlare italiano, anche per renderci comprensibili a mia madre, e ciò ci rendeva estranei e presuntuosi». Un dialetto presente anche ne ‘La straniera’ – «ho inserito i termini che mi sono rimasti più attaccati come fosse un esorcismo» – perché «è la prima volta che ho avvertito forte il sentimento di estraneità. Non perché parlassi italiano, ma perché ero in un contesto dove la lingua dominante era il dialetto». Eppure, prosegue la scrittrice, «il recente episodio del ragazzino vicino a Roma che fronteggia i militanti di Casapound usando la sua parlata dialettale mi ha molto colpito. Si è creato un delirio cognitivo nel quale non si capisce che l’intelligenza linguistica è destreggiarsi su più orizzonti, più lingue, più livelli. L’italiano è la storia dei suoi dialetti». E quindi diventa interessantissimo capire «in che modo la parola ufficiale può diventare marginale, e in che modo la parola marginale può diventare ufficiale. Per me la competenza linguistica sta nel fare questi continui scivolamenti e slittamenti, e nessuno deve peccare di presunzione».

La lingua della musica

Ha la passione per la musica, Durastanti. Una passione che traspare vivida e netta ne ‘La straniera’. Il raccontone del disco ‘Automatic for the people’ dei R.E.M., per esempio. Ma anche in un episodio curioso: è a Danzica, col suo compagno, in un taxi. Casualità vuole che la radio passi ‘Dance me to the end of love’ di Leonard Cohen e i due danno un significato diverso. A lei pare un canzone d’amore, lui replica che è invece una canzone che racconta dell’Olocausto. La spiegazione c’è. A tutto. Anche a chi non ha ancora capito che ‘Wish you were here’ dei Pink Floyd non è una canzone d’amore, cosa che invece è ‘Heroes’ di David Bowie. «Trovo che Micheal Stipe, leader e cantante del gruppo, abbia sempre avuto un modo di scrivere basato su spazi ambigui, con estremi spazi di interpretazione rispetto a testi cantautorali molto chiusi. E Cohen ha questa canzone che si presta, può essere scambiata per una canzone d’amore». E questo, in estrema sintesi, significa che «è bellissimo lo scollamento che può esserci tra due persone nella lettura della realtà attraverso l’interpretazione della poesia minima quotidiana, cioè una canzone che passa in radio. Canzoni e libri non hanno una fine, sono l’ascolto o la lettura, l’atto di interpretazione, che li finiscono».

La lingua straniera

Straniera a “Brooklììn” come diceva sua nonna, straniera in Basilicata, straniera nel linguaggio con sua madre, straniera in Inghilterra. Durastanti, certamente. Ma la figura dello straniero, antica come il mondo, dà come poche il senso di provvisorietà, inquietudine. Cita il Meursault de ‘Lo straniero’ di Albert Camus, nel romanzo. Esempio massimo, inarrivabile. Qual è quindi il ruolo della letteratura, nel descrivere la lingua dello straniero, uno straniero che sta così velocemente cambiando nell’immaginario e nella rappresentazione? «Spesso si sbaglia a considerare lo straniero solo come vittima rinunciando a narrare la dimensione epica», risponde Durastanti. Ma c’è una letteratura, appunto, «e penso a Dasa Drndic o Dave Eggers nella quale viene cambiato il modo di interpretare una migrazione che spesso interessa solo se ha premesse tragiche: l’Olocausto, la fuga dai totalitarismi e le rappresentazioni del Novecento». Ora ce n’è un’altra, che «necessita dell’epica, del racconto, prova a considerarli eroi. Non voglio fare un racconto picaresco, ma questo movimento di avventura, desiderio ed emancipazione è una parte vera dell’essere straniero, della migrazione». Anche perché, si diceva, tutto sta cambiando. «La migrazione legata a cause ambientali è qualcosa che si sta insinuando, e diventerà predominante. Un giorno riguarderà tutti, come ci comporteremo?».

La lingua dell’incomunicabilità

Tante lingue, abbiamo visto. Tante lingue che portano però all’essenza del libro: l’incomunicabilità. Non è che stiamo diventando tutti stranieri l’uno con l’altro? «Quando è che un sentimento si trasforma e si cambia? Si dice che è quando non si parla più la stessa lingua. A me interessava interpretarlo come un fenomeno circolare per cui l’attrazione che proviamo per l’altro nasce sempre da un’estraneità che l’altro ci presenta, ci pone un’altra immagine di noi stessi, ci fa parlare un’altra lingua. Ci si innamora per estraneità, e ci si disamora per gli stessi motivi. Basta aver visto Beverly Hills 90210 per capire che “Ciao straniero/a” è la prima cosa che si dice, ma anche l’ultima. Credo che il libro compia questo viaggio, gli stati di affettività sono provvisori e tra questi due poli di estraneità». Non è un caso, quindi, che verso la fine del libro, dopo il perdono, dopo la crescita, da adulta, Durastanti scriva: “La violenza più grande era volerla simile a me”.

La lingua tradotta

Durastanti è anche traduttrice. E pur non essendo una novità, anzi, che chi scrive traduca anche di professione, è interessante chiedersi quanto ci sia della traduttrice nella scrittrice e viceversa. «Ad oggi, e non è stato sempre così perché ho iniziato a tradurre in maniera sistematica cinque anni fa, io non potrei essere una scrittrice senza la traduzione. Invita a una costante riflessione sul linguaggio, è un gioco che mi diverte talmente tanto che non ci rinuncerei mai. Non avrei scritto ‘La straniera’, non fossi stata una traduttrice. Ti cambia la chiave di lettura della realtà. La scrittura è conversazione: non amo il mito dell’autore genio individuale e solo, non ci credo affatto perché i libri sono conversazioni. E la traduzione questo è, conversazione e arricchimento».

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