L'intervista

1918: la fine della guerra. E l'inizio della Storia

Lo storico Emilio Gentile racconta la Grande Guerra e il mondo radicalmente riconfigurato che ne seguì. Criticando le analogie tra l'attualità e gli anni 30 del Novecento

Fanteria francese si appresta a combattere i tedeschi in avanzata sulla Marna
1 dicembre 2018
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Lo pensavamo come la fine e invece fu l’inizio; potremmo dire così. Infatti lei, professore, colloca nel 1918 il ‘grande cambiamento’. Avrei pensato al 1914, a Sarajevo; ma se non capisco male lei considera che fu il modo in cui quella vicenda si concluse a determinare le crisi successive. La fine di una guerra mondiale ne incubò un’altra?
La prima ragione è che nell’autunno del 1918 esplosero le nazionalità all’interno dell’impero austroungarico, prima ancora che si giungesse all’armistizio. Cominciarono allora a nascere, per autoproclamazione, i nuovi Stati dell’Europa orientale. La nuova carta politica dell’Europa si configurò precedendo e imponendosi alla successiva conferenza di pace del 1919.
E se si confrontano le carte d’Europa dell’agosto 1914 e del dicembre 1918, si può constatare che i grandi imperi di Russia, Germania, Austria-Ungheria, Turchia, erano definitivamente scomparsi. E la loro scomparsa era iniziata già nel marzo 1917, con la prima rivoluzione russa.

Già, trascuravo il 1917…
Ricordiamo che tra il febbraio e l’aprile di quell’anno, iniziò una nuova guerra nella grande guerra. Abolito il dispotismo zarista, la Russia entrò in un periodo tumultuoso di esperimento democratico che venne poi stroncato dalla rivoluzione bolscevica. Ma proprio in aprile gli Stati Uniti d’America entrarono in guerra come “potenza associata” all’Intesa. Questo nuovo protagonista fece pesare la propria forza enorme, intatta e crescente su tutto l’andamento del conflitto; e soprattutto si impose come la potenza verso cui l’Europa si sarebbe trovata debitrice e non più creditrice.

Si riferisce alla nascita del cosiddetto ‘secolo americano’?
Non proprio. Sono restio a far nascere allora il “secolo americano”. In realtà, nel 1920 dopo il rifiuto del Congresso di sottoscrivere lo statuto della Società delle Nazioni, gli Usa entrarono in una lunga fase di isolazionismo, che fece credere all’Europa di essere ritornata protagonista delle sorti mondiali. Questa è la ragione che mi fa semmai collocare la nascita del ‘secolo americano’ al 1945, riducendolo così a mezzo secolo. Solo allora gli Stati Uniti divennero potenza egemone in tutto l’Occidente. Ma dal 1920 – con la sconfitta del progetto di Wilson e l’isolazionismo repubblicano – fino a Roosevelt, o meglio fino all’entrata in guerra nel 1941, gli Usa si mantennero al margine dei grandi eventi mondiali, e ancora una volta l’Europa ne divenne l’epicentro.
La seconda guerra mondiale scoppiò di nuovo qui, infatti, per le ambizioni di potenze europee di continuare esercitare il dominio mondiale che avevano avuto fino al 1918. Dopo tutto, i due grandi imperi usciti vincitori dal conflitto furono ancora la Gran Bretagna e la Francia, che accrebbero i propri domini coloniali. La breve stagione della mondialità europea, come l’ho definita nel mio libro “Ascesa e declino dell’Europa nel mondo 1898-1918”, era comunque finita. Si può piuttosto dire che l’espansione dell’impero britannico e dell’impero francese fu la crescita ipertrofica di un corpo privo ormai di vitalità.

Spesso si citano gli anni 30 del Novecento a proposito dello scenario politico contemporaneo. Le sembra un’analogia plausibile?
Come storico sono piuttosto diffidente nei confronti di queste analogie. Le differenze sostanziali sono ben più importanti, e riguardano proprio quelli che oggi vengono chiamati movimenti populisti. Certo, nel periodo precedente la seconda guerra mondiale, specialmente dopo la grande crisi del ’29 (alla quale si paragona oggi quella del 2008), ebbe inizio una deriva autoritaria in Europa, causata dalla delusione delle speranze e delle promesse di benessere ed equità sociale. Ma c’è un dato di fatto cruciale che rende impossibile l’analogia tra quel periodo e il nostro tempo: dopo il 1932 trionfarono movimenti nazionalisti e fascisti, che negavano la sovranità popolare e la cancellarono una volta divenuti regimi. Non solo: decisero di lanciare una sfida agli Stati che ancora la professavano e la praticavano. Quei movimenti e quei regimi che negavano la sovranità popolare erano fondati su partiti armati e dotati di programmi totalitari e di controllo della società; e praticavano una politica di espansione territoriale attraverso la guerra.
Oggi questi tre aspetti propri dei regimi fascisti, che sono fondamentali per capire che cosa è accaduto dopo il 1929, non esistono. Non solo: i movimenti definiti populisti nascono dal principio della sovranità popolare e la rivendicano, legittimando il loro stesso estremismo nazionalista con la ragione che essi stessi competono periodicamente con gli altri partiti e ottengono la maggioranza in elezioni democratiche.
Sul piano storico questa è una differenza sostanziale tra ciò che è accaduto negli anni Trenta e ciò che accade oggi.

Eppure…
Ciò che semmai è importante considerare è la mutazione subita dalla democrazia, in quella che io chiamo ‘democrazia recitativa’. Intendo una scissura tra due aspetti costitutivi della democrazia.
Intanto la democrazia come metodo, quello secondo il quale periodicamente i governati eleggono i governanti.
Ma questo ‘metodo’ non è il bene assoluto e non sempre genera il bene: per esempio, i governati possono eleggere democraticamente governanti razzisti, nazionalisti, o liberali, socialisti, quale che sia. Per questo il metodo non esaurisce la democrazia come realizzazione dell’eguaglianza di tutti i cittadini, anzi rischia di cancellarla. Secondo questo secondo aspetto essenziale della democrazia, come è stata finora intesa, i governanti eletti col metodo democratico hanno il compito di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono a ciascun cittadino di poter affermare la propria individualità, personale o collettiva, senza alcuna discriminazione. La Svizzera in questo è stata esemplare.
I movimenti populisti a cui lei faceva riferimento, a differenza dei fascismi storici (che la democrazia la negavano in nome di una investitura mistica del capo, della razza della nazione) ottengono democraticamente il mandato degli elettori. Che poi risultino una minoranza è il dramma delle democrazie contemporanee: l’assenteismo che cresce.
Per questo sono contrario all’uso del termine fascismo, tornato così presente nel dibattuto pubblico in Italia.

Glielo avrei chiesto. Quel 1918 incubò il fascismo, oggi se ne riparla, seppur con molti distinguo. Ma certe dinamiche non si richiamano?
Lo possiamo dire solo con il senno del poi. In realtà, il fascismo non si comprende senza la grande guerra e senza la mobilitazione politica di una parte dei reduci, ma non fu la grande guerra a generarlo né il fenomeno del reducismo. L’anno prossimo sarà un secolo dalla fondazione dei fasci di combattimento, ma fino al 1921 il fascismo stentò ad affermarsi. Altrove, in Stati che avevano sofferto ben di più, pensiamo alla Francia, occupata sino all’armistizio, con un numero di morti triplo rispetto a quello italiano, i movimenti dei reduci furono principalmente pacifisti.
Quello che generò il fascismo non fu immediatamente la guerra, la guerra piuttosto gli fornì il materiale. Ma ciò che mise fuoco alle polveri in Italia fu il mito bolscevico, che paralizzò per due anni il Paese in attesa della rivoluzione. Attesa alimentata dal primo partito nel parlamento italiano, quel Partito socialista che rinunciò a una realistica politica riformatrice continuando a inseguire la rivoluzione bolscevica. E favorendo così la reazione fascista.

Eppure non ritiene che ci sia un ritorno a una comunicazione politica di stampo fascista, dalla fraseologia, all’esibizione del corpo del capo: modi che rimandano a Mussolini, dinamiche comunicative che attingono a moduli di allora?
Questo purtroppo è un fenomeno che si è affermato da Berlusconi in poi e ha avuto anche Matteo Renzi come campione, ricordiamocelo. Le analogie potrebbero essere tante: il fascismo voleva abolire il senato, e lui stesso ha proposto una riforma costituzionale per arrivarci. E poi il suo linguaggio: i professori erano ‘professoroni’ (e il fascismo detestava l’intellettualità), poi i gufi, rosiconi. E anche Renzi esibiva il corpo in televisione e nella rete. Oggi Salvini non fa altro che continuare quello che, ahimè, da parte della sinistra democratica era già stato notevolmente incrementato dal linguaggio di Renzi. Da questo punto di vista, quella che chiamo democrazia recitativa ormai non pretende più di negare la democrazia, anzi la esalta ma la svuota della sua natura, indebolendo le sue istituzioni rappresentative fondamentali.
Il che vuol dire che non si tratta più di addossare la responsabilità a una parte piuttosto che a un’altra, ma di un degrado del linguaggio e della cultura politica, tipica di una democrazia recitativa (pensiamo al Trump come sua espressione massima), che utilizza un linguaggio sempre più elementare perché si rivolge a un pubblico sempre meno fornito di strumenti critici per capire la complessità delle situazioni.

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