Culture

I volti dei migranti

Intervista a Daria Pezzoli-Olgiati, oggi a Lugano per un convegno, sulle immagini che costruiscono il nostro immaginario collettivo sui profughi

Monumento ai profughi sull'isola di Cipro
13 ottobre 2018
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Migranti, profughi, rifugiati, invasori. Già le parole sono difficili, quando si parla di quella che sembra essere un’emergenza globale. O forse è solo questione di percezione, distorta da pregiudizi ancestrali, mass media vecchi e nuovi, opportunismo politico. Il che rende difficile affrontare il tema in modo sereno.

Sui migranti – utilizziamo questo termine, neutro e generico – è necessario uno sguardo scientifico, obiettivo, critico. O meglio una pluralità di sguardi, vista la complessità e la delicatezza del tema, e “Sguardi scientifici sulle migrazioni” è proprio il titolo del convegno che si sta tenendo nell’Auditorium dell’Università della Svizzera italiana, organizzato dalla Fondazione Ibsa per la ricerca scientifica in collaborazione con l’Ideatorio. Dalla storia dell’uomo all’antropologia, dalla paleontologia al diritto, sono molti gli aspetti che saranno affrontati, tra i quali vi è anche quella distorsione della percezione dalla quale siamo partiti. È infatti utile chiedersi non solo che cosa conosciamo dei migranti, ma anche come lo conosciamo. E la risposta è semplice: innanzitutto attraverso immagini: fotografie di barconi alla deriva, di campi profughi, di persone dietro le barriere di qualche frontiera. Immagini che non rappresentano solo sé stesse: «Quando vediamo un’immagine, non vediamo solo quella immagine ma “attiviamo” anche le immagini che abbiamo visto e assimilato in precedenza, un corpus che varia da individuo a individuo ma nel quale sono presenti anche molti elementi comuni» ci racconta Daria Pezzoli-Olgiati, professoressa di Storia e scienze delle religioni alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera, una delle relatrici del convegno.

Le immagini, quindi, non illustrano semplicemente la realtà.
No, in un certo senso le immagini la costruiscono, perché contribuiscono a formare il modo in cui pensiamo e vediamo il mondo. L’idea che le immagini e la realtà interagiscano è la premessa delle mie ricerche.

La realtà viene manipolata o, per usare un termine non connotato negativamente, trasformata dalle immagini?
Noi parliamo proprio di “costruzione della realtà”. L’idea del mattone che crea la casa è una bella metafora per spiegare quello che intendo dire: le immagini che vediamo creano delle immagini mentali con cui noi percepiamo la realtà. Al punto che se noi incontriamo qualcuno che non corrisponde alle immagini del migrante che abbiamo interiorizzato, non lo riconosciamo come tale, perché ci sorprende visto che non corrisponde alle nostre aspettative stereotipe.
Non parlerei comunque di una manipolazione in senso negativo, anche se le immagini possono essere usate a scopo manipolatorio. Le fotografie o le opere audiovisive permettono di percepire fenomeni indipendentemente dallo spazio e dal tempo, sono disancorate da queste due dimensioni. E quindi mediano sempre la percezione che noi abbiamo di quanto accade in altri luoghi e momenti e, in questo senso, costruiscono letteralmente la visione che noi abbiamo di questi fenomeni. Per questo è importante saper leggere criticamente le immagini e capire quali sono le prospettive che trasmettono. Oggi le immagini circolano molto velocemente e indipendentemente dalle narrazioni che le accompagnano: le immagini hanno un impatto molto forte, coinvolgono in maniera diversa da altri linguaggi.

Ma è possibile avere un’immagine che rappresenti in maniera obiettiva la realtà dei migranti, diciamo dei mattoni adatti per lo scopo? Oppure, trattandosi di un fenomeno complesso, ogni immagine in quanto particolare è necessariamente parziale? 
Parziale, perché ogni immagine ha necessariamente un punto di vista. È scattata all’altezza degli occhi o dall’alto? A colori o è in bianco e nero? Presenta la prospettiva di chi è in viaggio o di chi accoglie? Non esiste un’immagine neutra, perché ogni immagine ha forzatamente un suo punto di vista. Il trucco non sta nella ricerca di una immagine imparziale, ma nell’interpretazione attenta delle immagini nella loro parzialità.

In concreto, che cosa veicolano le immagini dei migranti?
Facciamo un esperimento: confrontiamo mentalmente le immagini di migranti dietro delle sbarre con quella del corpo del piccolo Aylan tra le braccia del poliziotto. Rappresentano il fenomeno della migrazione con connotazioni opposte e con potenziali emotivi diversi: l’una mette una barriera e quindi distacco tra lo spettatore e la massa di migranti, l’altra richiede un’identificazione emotiva e provoca un sentimento di vicinanza.

Però l’immagine dietro le sbarre può essere una denuncia delle condizioni inumane subite dai migranti.
Però crea una distanza: chi guarda la foto è sempre dalla parte giusta della rete. Inoltre ritorno sul fatto che le immagini non viaggiano mai da sole: l’immagine di una gabbia evoca le immagini simili che già conosciamo. E se pensiamo ai leoni nello zoo, siamo ben contenti di essere protetti da quelle sbarre!

Lei insegna scienze e storia delle religioni. E la religione è parte della percezione dei fenomeni migratori.
Ma non da sempre. Negli anni Settanta c’erano forti flussi migratori, ma si parlava di turchi, algerini eccetera: le persone erano definite secondo la loro appartenenza nazionale e/o etnica. Dopo l’11 settembre, sulla scia delle tensioni provocate dal terrore, la religione viene usata come caratteristica discriminatoria del migrante. In questo modo, i discorsi pubblici rendono l’altro altro in forza di una presunta appartenenza religiosa. Ma, come tutti sappiamo, non è semplice definire la religione di una persona, le convinzioni e pratiche sono di carattere personale. Inoltre il mondo delle religioni è estremamente differenziato e le nostre conoscenze in materia spesso, purtroppo, modeste.

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