Locarno

Gli apolidi e la frontiera

Doveva essere arte senza cornice, è finita chiusa dalle transenne

13 aprile 2018
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L’opera d’arte è spesso – più spesso di quanto non si creda – questione di cornice. La cornice è il punto dove l’opera incontra il mondo, e il modo in cui l’artista progetta questo contatto aiuta a capire quali intenti abbia. Ci sono opere che nascono per avere una cornice: dipinti che sono come finestre su un mondo diverso, separato dal nostro, e la cornice segna la frontiera da attraversare per entrarci. Ci sono opere che nascono invece per essere “apolidi”, prive di cornice (e di frontiera) tra loro e il mondo: il confine non può esserci, perché chi le ha ideate non voleva che rappresentassero una realtà separata da ammirare da fuori, come comodi osservatori distaccati; voleva invece che stessero saldamente dentro al mondo, che dialogassero con chi lo abita.

La transenna impotente e inopportuna

‘Apolide’, l’opera di Oppy De Bernardo che ha portato in Piazza Grande a Locarno una genia di bestie e frutti (fenicotteri, tartarughe, balene riconoscibili solo a costo di un certo sforzo di fantasia, ananas, angurie…), sembrava nata per appartenere a questa seconda categoria: il primo giorno, le bestie si sono fieramente insediate in mezzo alla Piazza Grande, tutte insieme in un’isola colorata che sconfinava nel mondo dei passanti; in quelle prime ore, i bambini osservavano gli animali con desiderio e timore senza osare avvicinarsi, mentre gli audaci s’azzardavano giusto a infilare un piede in un fenicottero per poi subito ritirarlo, forse per l’influsso del compassato clima pre-pasquale. Sono bastate poche ore, però, perché gli apolidi venissero presi d’assalto: già nella prima notte si sono avuti i primi rapimenti e qualche esecuzione sommaria, senza alcun riguardo per le specie protette. Così, già dal giorno di Pasqua è apparso, tra le bestie e il mondo, un confine di transenne e nastro rossobianco da scena del crimine. Peccato solo che la transenna, tanto inefficiente quanto brutta, ha sconfessato in un sol colpo non solo l’invito – invero piuttosto timido – di ‘Apolide’ all’abolizione delle frontiere (che alcuni, d’altra parte, avevano subito colto…), ma ha rappresentato anche una maldestra deviazione dal discorso di partenza dell’opera, che proprio perché era stata pensata senza transenne sembrava invitare all’incontro e allo scontro con la popolazione. D’altra parte, quando la performer Marina Abramović, nel 1974, si sedette in una galleria d’arte con di fronte una serie di oggetti (da strumenti di tortura a capi d’abbigliamento) invitando il pubblico, per sei ore, a farle quel che voleva, fu proprio il fatto che non si ritirò, nel momento in cui si passò dal tagliuzzarle i vestiti a inciderle la pelle, il segno della sua coerenza artistica (oltre che di una certa spregiudicatezza).

Abramović, Come nel caso di anche gli eventi locarnesi (che sono culminati, dopo i rapimenti e gli omicidi delle bestie, nel saccheggio di martedì, con l’artista che cercava di raggranellare almeno una trentina di fenicotteri per un’iniziativa benefica che accostava, con eccentricità degna di un Cattelan, Fra Martino Dotta e il Vanilla) ci parlano della cosiddetta natura umana; farne affiorare la verità profonda era la missione della performer serba, e al momento dell’inaugurazione sembrava fosse anche quella di ‘Apolide’: si presentava come un’opera che avrebbe testimoniato, giorno per giorno, gli esiti del rapporto tra le bestie colorate e il mondo. La transenna locarnese ha sconfessato invece questo intento: alla prima minaccia, l’opera si è sottratta al rapporto col mondo, rifiutandosi di accettarne le asperità. È, in fondo, un segno dei tempi: anche l’arte indietreggia quando si vede minacciata e si illude che optare, all’ultimo momento, per una cornice che non le appartiene la possa proteggere dalle incursioni del reale. Così la transenna rappresenta non solo lo sconforto di fronte a un pubblico che non riesce a reprimere i propri istinti nemmeno di fronte a un branco di fenicotteri (riconfermando una poco dignitosa etimologia secondo cui la parola ‘buzzurro’ sia nata per descrivere proprio i ticinesi), ma anche il naufragio di un progetto artistico che, nato apolide, ha subito voluto richiudersi dietro le proprie frontiere. Vanamente, come sempre.

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