Culture

Swiss Baby James

Un grande James Taylor alla Kongresshaus di Zurigo. Un concerto, non un Greatest Hits Live (con anticipazioni dall'imminente nuovo album)

11 marzo 2015
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‘Friendly neighborhood’ come l’Uomo Ragno, James Taylor è il vicino di casa che tutti vorrebbero. Un sempreverde, un uomo per tutte le stagioni, un Pronto Soccorso musicale capace di raddrizzare umori, ammorbidire i cuori di pietra e mettere d’accordo canzonettari e integralisti del jazz. In poche parole, uno che – dove lo metti – splendidamente sta. L’autore di ‘Carolina on my mind’, ‘Fire and Rain’ e altre indimenticabili pagine di Songbook americano ha illuminato domenica scorsa Zurigo dal palco della Kongresshaus insieme alla band storica più recente, quella formata da Michael Landau (chitarra elettrica), Steve Gadd (batteria), Larry Goldings (pianoforte e tastiere), Jimmy Johnson (basso) e – ai cori – gli altrettanto storici Arnold McCuller, Kate Markowitz e Andrea Zonn (voce e violino, quest’ultima). Una manciata di grandi tutti intorno a un Grande che tanto bene starebbe a Locarno, sul palco dell’omonima Piazza.

Ben stipato in una scaletta aperta da ‘Something in the way she moves’, il lungo repertorio ha regalato anche stelle minori (ma solo per popolarità) come ‘Hour that the morning comes’ (da ‘Dad loves his work’, 1981), ‘Lo and Behold’ (definita autoironicamente “una cazzata hippie”, da ‘Sweet Baby James’, primo album di vero successo del 1970) e ‘One more go round’ (da ‘New Moon Shine’, 1991), per quello che in barba alla tendenza autocelebrativa di molti non è un ‘Greatest Hits Live’, ma ancora un concerto in piena regola, inediti inclusi (tre in tutto). A questo proposito, tra i brani che andranno a formare il nuovo album in uscita tra maggio e giugno (oltre a ‘Today, today, today’, in apertura), ha scaldato i cuori soprattutto ‘You and I again’, love song collocata giusto all’inizio della seconda parte e retta dal pianoforte di Goldings. Quanto alla prima, di parte, e questa volta a proposito di ‘Sweet Baby James’, una delle standing ovation è arrivata proprio su questa omonima ed eterna ballad da cowboy solitario composta nel 1969 al ritorno da Londra e dedicata al nipotino che porta il suo nome. I primi sessanta minuti di concerto – che hanno incluso anche la struggente ‘Millworker’, ‘Everyday’ (Buddy Holly) e le più note ‘Wandering’ e ‘Country Road’ – si sono chiusi con ‘Shower the people’, non pri- ma del ricordo della terra natia in ‘Carolina on my mind’. Due parole sull’intervallo, un lungo quarto d’ora con il pubblico a caccia di selfie, ai quali l’artista americano non si è sottratto nemmeno a Zurigo, prodigo a bordo palco di smorfie e abbracci in piena complicità coi fan sotto i riflettori degli smartphone (a dimostrazione che – a parte alcuni strenui nostalgici del cimelio fisico – l’autografo non va più di moda).

‘Stretch of the highway’, altro inedito dall’imminente nuovo album, ha aperto una seconda parte in cui sono sfilate sontuose ‘Walking man’ (1974), ‘Handy Man’ (brano di altri, ma che nell’esecuzione di Taylor, era il 1977, fu Grammy) e ‘Fire and rain’. Poi, il consueto finale con la tripletta ‘Mexico’/‘Your smiling face’/‘How sweet it is (to be loved by you)’, prima che la splendida preghiera ‘Shed a little light’ aprisse al classico dei classici, ‘You’ve got a friend’. Strette le ultime mani a bordo palco, lo sventolio di berretto e sorrisi è stato l’ultimo atto di una due ore di celebrazione collettiva che riprenderà a Lione, e da francese diverrà italiana (il percorso europeo si chiuderà a Milano il prossimo 25 aprile, Teatro degli Arcimboldi). Poco prima, l’immancabile ‘Steamroller Blues’ – con tanto di assolo di Telecaster celeste e armonica a bocca – aveva testimoniato di come, proprio in terra di ferrovie efficienti, lo splendido sessantasettenne viaggi ancora spedito come una locomotiva che non ha mai sbagliato una stazione. Zurigo inclusa.

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