Castellinaria

A Castellinaria il ‘maestro di libertà’ Braibanti

Intervista a Massimiliano Palmese, regista con Carmen Giardina di ‘Il caso Braibanti’, in streaming al festival del cinema giovane di Bellinzona

Aldo Braibanti in un fotogramma del documentario
14 novembre 2020
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Chi era Aldo Braibanti? Uno scrittore, un drammaturgo e poeta; un ex partigiano, imprigionato e torturato dai fascisti; persino un esperto mirmecologo, vale a dire uno studioso di formiche. Ma, per parte dell’opinione pubblica, Braibanti fu un mostro, addirittura “il demonio” come riporta un ritaglio di giornale che troviamo nel bel documentario ‘Il caso Braibanti’ di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, fuori concorso alla 33ª edizione di Castellinaria (online sul sito www.castellinaria.ch fino al 28 novembre).

Sul finire degli anni Sessanta – gli anni del Sessantotto, della liberazione sessuale, della messa in discussione dei valori tradizionali, ma anche della reazione della società borghese – Braibanti è stato infatti al centro di un caso giudiziario molto discusso, con la mobilitazione di personaggi come Elsa Morante, Dacia Maraini, Alberto Moravia, Carmelo Bene, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco. Di cosa era accusato Braibanti? Formalmente, di plagio: reato introdotto dal codice penale fascista e dichiarato incostituzionale nel 1981. Di fatto, la colpa di Braibanti è quella di essere omosessuale e di aver avuto una relazione con due giovani, Piercarlo Toscani e soprattutto Giovanni Sanfratello. Perché mentalmente soggiogati, ridotti in uno stato di “schiavitù mentale”, come sostenne l’accusa: solo così avrebbero potuto piegarsi a quella degenerazione, a quella indifendibile perversione che, non solo per le destre, era l’omosessualità. Il processo si concluse con una condanna – l’unica mai inflitta per quel reato in Italia –, nonostante le prove che la relazione fosse libera e consensuale.

Nove anni di reclusione, in seguito ridotti a quattro anche perché Braibanti fu un ex partigiano, e nessun risarcimento, quando il reato venne dichiarato incostituzionale. Ma la vittime principale non fu Braibanti, bensì Sanfratello: a lui non toccò il carcere, bensì un manicomio e l’elettroshock voluti dalla famiglia, cattolica e conservatrice, per “guarirlo” dall’omosessualità e dalle sue “deviazioni artistiche” incoraggiate da Braibanti. Un breve estratto dal quotidiano ‘Il tempo’ ci dà il senso degli abusi che subì Sanfratello non dal suo amante e mentore, bensì dalla famiglia e dalle istituzioni: “Dopo un’energica cura psichiatrica, Giovanni Sanfratello ancora non è convinto dell’opportunità di attaccare Aldo Braibanti. Evidentemente non è ancora guarito”.

Il merito del documentario di Giardina e Palmese è quello di ricostruire con rigore e lucidità non solo il caso giudiziario, ma tutta la vicenda umana e artistica di Braibanti e di Sanfratello, attraverso un ben allestito insieme di testimonianze – del nipote Ferruccio Braibanti, di Piergiorgio Bellocchio, Lou Castel, Dacia Maraini e altri ancora – e dell’interessantissimo materiale d’archivio: fotografie messe a disposizione dalla famiglia Braibanti, i video d’arte girati dallo stesso artista e assolutamente inediti, i film sperimentali di Alberto Grifi, oltre ad alcune scene del testo teatrale che Massimiliano Palmese ha dedicato a Braibanti.

Chi era Aldo Braibanti, quindi? Tante cose: un intellettuale mite, come si afferma all’inizio del documentario, un maestro di libertà come ci ricorda Massimiliano Palmese.

Massimiliano Palmese, che cosa l’ha spinta a indagare la figura di Braibanti?

Sicuramente il mistero del grande silenzio che è calato su Aldo Braibanti. Il suo nome salta fuori spesso in ambiti specialistici: il diritto, visto che il reato di plagio è molto studiato e ha nel caso Braibanti un momento importante; poi nella storia del cinema, per i suoi legami con Alberto Grifi; nella letteratura, perché è stato un poeta d’avanguardia anche prima del Gruppo 63.

La sua statura va al di là del caso giudiziario: mi ha affascinato la sua figura, le sue idee. Era un pacifista e un ecologista ben prima del Sessantotto: un visionario. Una delle menti più lucide che l’Italia abbia mai avuto, come riconosciuto ad esempio da Pasolini o da Carmelo Bene.

Perché dunque l’oblio?

Attaccato, non ha avuto sponde: aveva combattuto il fascismo, era uscito dal partito comunista, era omosessuale.

Quindi prima ancora del processo?

Sì. Antifascista tutta la vita, uscì dal partito comunista già nel 1948. Mi hanno raccontato che faceva parte della federazione dei giovani comunisti ma, al momento di redigere il programma, fecero fuori ogni istanza proveniente dai territori, un centralismo che lo fece uscire dalla politica attiva. E non era una cosa che si perdonava.

Nessuna parte politica poteva fare di Braibanti una sua icona, e così su di lui è calato un grande silenzio. Prima col teatro e poi con il documentario, ho cercato di rompere questa ‘damnatio memoriae’.

Cosa cambia tra il teatro e il documentario?

Il testo teatrale si focalizzava molto sul processo perché quando sono andato a leggere gli atti processuali, le testimonianze, gli interrogatori, le requisitorie erano dei pezzi di teatro belli e pronti. È stato un lavoro relativamente facile, e molto grottesco. Nel film abbiamo tenuto qualcosa di questo grottesco, come la madre di Giovanni Sanfratello che dice “andiamo da Padre Pio che ci ha guarito l’altro figlio che era comunista” ma con Carmen abbiamo cercato di esplorare meglio, di ampliare la visione, di cercare anche il caso politico, il caso letterario, il caso poetico, esplorare la vita di Braibanti prima e dopo.

Raccontando il Braibanti poeta, drammaturgo, studioso di formiche… 

Non solo. Nella parte iniziale ad esempio abbiamo cercato di raccontare come in una provincia cattolica – “Piacenza la bianca”, la chiamavano, nell’Emilia rossa – era possibile trovare una famiglia ultracattolica come quella di Sanfratello e una invece illuminata come quella di Braibanti. Nel finale, invece, volevo mostrare – senza esagerare, perché lui era una persona molto riservata – quanto lui sia stato abbandonato: viveva in una grande indigenza, grazie all’aiuto degli amici.

Qual è il senso di raccontare, oggi, il caso Braibanti?

Quello che dice lui stesso quando gli venne negato il risarcimento per essere stato condannato per un reato incostituzionale. Bisogna sempre stare all’erta perché sulla strada per la libertà, per il riconoscimento di nuovi diritti c’è sempre qualcuno che vuole tirare il freno, che vuole creare delle trappole. Prima erano gli omosessuali, a lungo lo sono stati i comunisti, oggii nemici sono quelli che arrivano con i barconi. Braibanti è stato un grande maestro di libertà, la sua vita è stata tutta una lunghissima, interminabile contestazione.

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