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John Constable. Paesaggi dell’anima

La mostra, con una sessantina di opere, ripercorre la vicenda del celebre pittore ed è visitabile fino al 5 febbraio alla Venaria Reale di Torino

La Cattedrale di Salisbury vista dai prati, 1831, olio su tela
(© Tate)
12 gennaio 2023
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Quando nel 1824 al Salon di Parigi venne esposta una selezione della recente pittura inglese di paesaggio, per alcuni artisti francesi – i più aperti e innovativi – fu una vera e propria rivelazione, per altri – i più accademici – un autentico choc, impossibilitati a credere che quella potesse dirsi Arte. Lo scontro – a livello sia di temi che di forma – era già interno all’arte francese, perfino dentro quello stesso Salon, chiaramente leggibile nelle opere a confronto dei due principali artisti dell’epoca: da una parte il neoclassico Jean Auguste Dominique Ingres che, nel suo Voto di Luigi XIII, cita quasi alla lettera la Madonna Sistina di Raffaello, ora a Dresda; dall’altra Eugène Delacroix che, in tempo reale, nel Massacro di Chio mette in scena le conseguenze della resistenza greca contro gli occupanti turchi i quali per vendetta massacrano centinaia di uomini e donne. Una pittura di realismo drammatico anche a livello di forma, perfino nei fumi che oscurano il cielo, e che tocca un tema centrale del pensiero romantico: l’autonomia dei popoli.

Al confronto i pittori inglesi esposti in quel Salon sembravano venire da un altro pianeta: vivendo su un’isola e con una monarchia molto consolidata apparentemente non si pongono quei problemi. Dipingono invece quadri di natura, scorci di paesaggio, campagne inondate di luce… ma con una novità e freschezza di accenti da lasciare stupiti e affascinati a un tempo, con un’aderenza alla realtà che quei primi francesi in qualche modo sentivano se non affine quantomeno in linea con la loro, tanto che ne rimarranno contagiati: a cominciare dallo stesso Delacroix per venire poi a Géricault, a Corot, alla Scuola di Barbizon.

A rasoterra

Della pattuglia di pittori inglesi presenti a quella mostra due erano già ben affermati e predestinati a futura gloria: J.W.M. Turner (1775-1851) e John Constable (1776-1837). Nati a un solo anno di distanza non avrebbero potuto essere più diversi. Figlio di un modesto barbiere e autodidatta il primo; figlio della ricca borghesia di campagna il secondo, formatosi per di più alla Royal Academy. Ma soprattutto diversi per il loro modo di intendere la pittura di paesaggio all’interno di una comune poetica di attenzione al dato di natura, potremmo dire di adesione al dato di realtà. Che però Turner innalza e trasfigura conformemente alla poetica romantica del ‘sublime’ così da rendere idea di una Natura che affascina ma incute anche timore e persino terrore nell’Uomo, come le alte montagne con stretti passaggi a picco sul baratro (il passo del Gottardo), barche in mare travolte dalla tempesta, tormente di neve, grandi silenzi e cieli infiniti. Solo negli acquarelli fatti in presa diretta – era un vero maestro dell’acquarello – il ‘sublime’ si attenuava a favore di una maggiore aderenza alla verità del luogo (in quelli fatti a Bellinzona, per esempio), avvicinandosi in questo a Constable.

Il quale, a sua volta, qua e là, sente pure il fascino del sublime, anche se la sua corda più autentica e il meglio della sua pittura si ha quando egli sta più rasoterra e le cose parlano per quel che sono o, meglio, per quel che sono per lui. La sua pittura, infatti, non è mai semplice riporto di quel che vede, vale a dire opera di referenzialità: vi si sente dentro un’intensità di sguardo e una freschezza di pittura che rivela adesione e vicinanza a ciò che rappresenta, anche quando parrebbe descrittiva. In effetti quelli che lui dipinge sono i luoghi a lui più cari, quelli della sua infanzia: sono le terre che suo padre – facoltoso mercante di cereali, proprietario di due mulini ad acqua che gestiva inoltre un’attività di trasporti con chiatte trainate da cavalli – dava in affitto ai coloni poco oltre la loro tenuta. Tutti soggetti che ritroviamo poi nelle sue più belle e sentite pitture: «La pittura – diceva – è solo un altro modo di esprimere un sentimento. Collego la mia infanzia spensierata a tutto ciò che circonda le rive del fiume Stour. Esse hanno fatto di me un pittore e ne sono grato».

Luoghi biografici

Al contrario di Turner che viaggiava incessantemente attraverso l’Europa, Constable concentrò la sua pittura su luoghi strettamente associati alla sua vita: la campagna ridente e rigogliosa del Suffolk, le splendide cittadine di Salisbury, Hampstead e Brighton che frequenta in compagnia della famiglia e degli amici. Luoghi fondamentali per la storia delle sue memorie e dei suoi affetti, depositati nei toni e nelle forme di una Natura accogliente e di un’umanità operosa, nella quale ci si può sentire in pace con sé stessi e con il mondo. Ma anche emblematici e coinvolgenti per la vastità delle sue marine o per la luce dei suoi cieli, non di rado solcati da nuvole potenti che si agitano e sormontano, in fuga sopra schegge di paesaggi dove uomini e animali convivono serenamente.

Li dipingeva en plein air: la pittura all’aperto era per lui l’unico modo per catturare l’emozione; di conseguenza abbandonò i metodi tradizionali della sfumatura o dell’impasto dei colori su tavolozza e adottò invece una pennellata viva, a colpi di colore accostati o sovrapposti, lontano dal gusto del tempo per cui le sue opere apparivano non finite agli occhi dei contemporanei. Basterebbe questo per capire quanto inciderà la sua pittura sul realismo di Corot e Courbet o sugli impressionisti.

La mostra ‘John Constable. Paesaggi dell’anima’ è visitabile fino al prossimo 5 febbraio alla Venaria Reale di Torino. Nelle Sale delle Arti è esposta una sessantina di opere che racconta e ripercorre cronologicamente tutta la vicenda artistica del celebre pittore.

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