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Gianfredo Camesi da vivere

Fino al 4 settembre, un’installazione site-specific dedicata al pittore e scultore ticinese. Al Museo d’arte Mendrisio, a cominciare dal chiostro

‘Lambda’
(Museo d’arte Mendrisio)
21 luglio 2022
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La grande installazione che Gianfredo Camesi ha messo in opera al Museo d’arte Mendrisio è stata integralmente concepita ed elaborata in funzione degli spazi museali in cui gli è stato chiesto di intervenire: si tratta quindi di un’opera site-specific, come si suol dire, nata cioè in rapporto con l’ambiente che l’accoglie: non solo relativamente alla dimensione degli spazi o alle forme della architettura, ma anche alla sua storia, alla sua identità, a quello che quel luogo è stato e ha rappresentato nel tempo. Ora, analizzare da questo punto di vista l’operazione fatta da Camesi nell’ex convento dei Serviti, a cominciare dal chiostro, con lo specchio posizionato a terra che ne riflette l’andamento delle arcate o il campanile che svetta nel cielo e, poi, quando si entra nei locali di vita conventuali, significherebbe addentrarsi in un’analisi ricca di spunti e considerazioni che in catalogo non figurano e che qui noi non possiamo fare.

Perché nella sua essenza, quella sua grande installazione ci parla di un uomo e di un artista della contemporaneità che, laicamente, si confronta con le stesse domande e le medesime problematiche affrontate da quegli uomini che, secoli prima di lui, hanno vissuto, cercato e pregato all’interno di quello spazio. Lo fa però operando in un contesto culturale e artistico diverso, dagli esiti diversi, mediante un linguaggio diverso: non sempre di immediata lettura, tanto nelle sue scansioni interne, quanto nell’insieme della installazione che non espone né rappresenta immagini del mondo, ma sviluppa un pensiero, esprime un sentimento del vivere, traduce in forme visibili un certo modo di intendere o percepire la vita.

A cominciare dalle prime presenze che, nell’ordinata razionalità del loro disporsi, richiamano il visitatore non appena entrato nel chiostro: un’opera in ferro e acciaio con uno specchio al suolo, una corda che taglia diagonalmente il cortile interno, una freccia orientata verso l’entrata del museo. Nel primo caso si tratta di un cubo, fatto con profilati di ferro, che poggia al suolo su un unico lato perché attraversato in diagonale da un’asta in acciaio che, facendo pressione sugli angoli contrapposti, lo tiene in equilibrio precario: un po’ come l’uomo, sempre alla ricerca di un possibile equilibrio per quanto momentaneo. Quel cubo è corpo ben definito ed individualizzato, ma al tempo stesso è anche forma aperta ed in comunicazione con tutto quanto sta fuori di lui, con il mondo che lo circonda, con le sue forme, la sua storia, la sua cultura. È dunque metafora dell’uomo con tutte le sue aspettative, dove, grazie allo specchio, anche cielo e terra si congiungono, e l’azzurro del cielo pare incunearsi nel suolo, mentre la terra, con quel campanile, si innalza fino a penetrare nel cielo: mettendo in relazione l’infinità dell’uno con la finitudine dell’altra, ed in mezzo quell’uomo che guarda, osserva, cerca. Poco oltre, la corda tende lo spazio interno: lo organizza e struttura in maniera diversa rispetto alle sue quatro solite entrate, gli dà un nuovo orientamento, attiva una diversa percezione. La freccia allude al viaggio, al movimento, a un obiettivo da raggiungere, alla direzione da dare ai nostri passi: è quindi proiezione nel tempo.


Al piano superiore

Il tema

Non siamo che al preambolo della installazione camesiana, ma già si avvertono chiari segnali di quanto avverrà poi al piano superiore dell’ex-convento, dove, nel punto di intersezione di due diagonali inscritte in un quadrato, si ritroverà la stessa freccia sormontata da un filo a piombo: a indicare quel punto, quel tempo e quel luogo, tra orizzontalità e verticalità, tra vicino e lontano, in cui ogni uomo ha iniziato il suo percorso di vita. Il tema di fondo dell’intera opera, nella sua complessità, è quindi la vita come cammino dell’uomo per rapporto alle dimensioni dello spazio e del tempo, tra finito ed infinito. Si avvia con dei ‘retabli’ accostati alle pareti e poggianti sul pavimento, ad indicare i quattro punti cardinali al cui centro si trova l’osservatore: sono del tutto bianchi, immuni cioè da qualsiasi segno o storia, non raccontano nulla in quanto potenzialmente aperti ad ogni futura possibile evoluzione. Allusione alla nascita, al viaggio che comincia; segue quindi l’incontro con la vita e i suoi colori, quelli delle ore e delle stagioni, dello scorrere del tempo; e poi con la luce che non è più solo quella fisica, ma quella che può illuminare il cammino della vita; e poi ancora con l’agire, con l’azione delle mani e la direzione da dare ai nostri passi, il tendere a una meta, a un orizzonte lontano. Non per nulla l’installazione si apre con una doppia fotografia dell’artista che si avvia nudo incontro al mondo e torna poi vestito, carico cioè delle esperienze fatte. Il giro dell’installazione diventa quindi metafora del giro di vita che ogni uomo fa nel corso del suo esistere.

Il percorso termina all’interno di una doppia sala di grande impatto in cui il visitatore è indotto a camminare sulla terra verso un orizzonte lontano, dove lo attendono una lampada (ricerca di senso e di luce) e poco oltre, un paio di scarpe deposte ai piedi di una grande pala d’altare. Alla sua destra su un’intera parete ecco tornare colori e simboli con cui si era aperto il percorso: la terra che dialoga e si specchia nell’azzurro del cielo e, di fronte a loro, il visitatore in viaggio a confronto con l’infinità cosmica che lo circonda e accoglie. Non opere da guardare, ma un’esperienza da vivere.


Anche cielo e terra si congiungono

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