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‘Expressionismus Schweiz’, la nostra faccia in ombra

In viaggio verso Winterthur, Kunst Museum, per la mostra aperta sino al prossimo 16 gennaio

Hermann August Scherer (1893–1927), Der Maler, 1925 (Collezione privata)
10 gennaio 2022
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Prima di partire per Winterthur, dove ho intenzione di visitare la mostra “Expressionismus Schweiz”, mi documento, naturalmente. E cedo anche alla tentazione di consultare, in biblioteca, un librone in carta patinata, con bellissime riproduzioni a colori. Titolo: “Espressionismo”. Consulto l’indice e sussulto: non c’è traccia di artisti svizzeri. L’unica presente è Marianne Von Werefkin che, com’è noto, è una russa trapiantata ad Ascona. Nessun altro dei nostri è citato, neanche i grandi Walter Kurt Wiemken, Louis Soutter e Johannes Robert Schürch. Come mai? Forse l’autore della monografia, pubblicata nel 2000 a Köln, ha un grosso pregiudizio nei confronti della Confederazione Elvetica, che non ritiene degna di dare i natali ad artisti di qualità ma solo a vacche di pura razza alpina. Forse è un nazionalista germanocentrico, chissà. Comunque sia, diffidate dei libri di grande formato, in carta patinata...

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Ma che cos’è, veramente, questo Expressionismus? Non potrò certo essere io a spiegarvelo in una paginetta, ma farò del mio meglio. Sono espressionisti quei pittori che esteriorizzano sentimenti e idee, manifestando uno stato d’animo dominato da insoddisfazione, conflitti, nevrosi: e non solo nel Novecento. L’Espressionismo è una tendenza che attraversa tutta la storia dell’arte, dalla Venere preistorica di Willendorf alle figure allungate di El Greco, dal Cristo insanguinato di Grünewald alle sculture azteche, dai grovigli del Gruppo Cobra ai segni di Penck, artista presente oggi al Museo d’Arte di Mendrisio. Come movimento artistico nasce nel Nord. Prende forma a Dresda nel 1905, con la fondazione del Gruppo ‘Die Brücke’ da parte di quattro studenti di architettura (Kirchner, Bley, Heckel, Schmitt-Rotluff) e a Monaco nel 1911 con il “Blaue Reiter” (Kandinsky, Marc, Macke, Klee). Nel tentativo di metterne a nudo i tratti distintivi, Paul Fechter nel 1914 scrive: “Non si tratta più di riconoscere, ma di sentire, di entrare nelle regioni della psiche là dove dorme il germe dell’opera...”; “L’espressionismo pone un compito dieci volte più difficile di quello imposto dall’Impressionismo. L’osservatore non ha più un appiglio sul mondo, sulle cose, è posto senza alcun riguardo solo su sé stesso...”: prendo questa citazione dal ricchissimo catalogo ‘Ipotesi Helvetia. Un certo Espressionismo’, pubblicato in occasione dell’importante esposizione del 1991 alla Pinacoteca Rusca di Locarno.

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Potremmo chiederci che cosa distingue le opere degli artisti espressionisti tedeschi da quelle degli svizzeri. La prima cosa da dire, forse, è che quest’avanguardia, la quale sconvolse il panorama artistico europeo portando con sé una cultura di opposizione nata dalle macerie della prima guerra mondiale, arriva in ritardo da noi: Il Gruppo Rot-Blau, formato da Albert Müller, Hermann Scherer e Paul Camenisch, viene fondato la notte di San Silvestro (1924/1925) a Obino, sopra Castel San Pietro, quando il movimento nato in Germania a rigore si stava già esaurendo. “Gli faremo vedere noi chi siamo!”, sarebbe stato questo il tono di quella famosa notte, secondo le memorie di Camenisch: il motto battagliero era indirizzato alle generazioni di pittori, nati alla fine dell’Ottocento, che dominavano il mercato basilese.

Ma, a parte il Gruppo Rot-Blau, nato più che altro per opporsi all’ufficialità che monopolizzava il mercato dell’arte a Basilea, e il Gruppo ‘Der grosse Bär’ di Ascona, l’Espressionismo svizzero è fatto in prevalenza di lottatori solitari: questa potrebbe essere una caratteristica che lo differenzia dal movimento tedesco. Prendiamo tre artisti operanti nel Locarnese in quegli anni; Ignaz Epper, Fritz Pauli e Johann Robert Schürch: essi sono degli ‘Einzelgänger’. Specialmente quest’ultimo, considerato uno dei maggiori artisti svizzeri del Novecento. Che è vissuto per anni, isolato, in una casetta ai Monti della Trinità sopra Locarno.

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La mostra di Winterthur, aperta fino al 16 gennaio, si propone di presentare l’Espressionismo, precursori compresi, nelle varie regioni della Svizzera. Ma, poiché qui è impossibile renderne conto in modo dettagliato, mi limiterò alla sezione riguardante il Ticino.

Nella sala centrale al secondo piano del Kunst Museum il visitatore viene investito dalla violenza dei colori primari di Müller e Scherer, gli allievi di Kirchner, e dalla potenza delle sculture lignee di Scherer: fra le quali spicca la donna supina che allatta in modo traumatico il suo bambino e il ‘Redner’ del 1926, con quel braccio alzato nel quale l’artista ha saputo cogliere l’energia necessaria a un comiziante rivoluzionario per infiammare le folle. Dalle pareti ci viene poi incontro una figura gigantesca, minacciosa, con sottobraccio un quadro, che cammina sinistra, il viso dipinto di verde blu e rosso come una maschera, in un paesaggio sconvolto dai colori accesi nel quale è difficile riconoscere la dolcezza delle colline del Mendrisiotto: è lui, l’artista dagli occhi spenti e dal mento aguzzo, che taglia obliquamente lo spazio con innaturale movenza. Il suo egocentrismo lo porta a giganteggiare in primo piano contro montagne rosso fuoco.

E ora ecco invece un gruppo di giocatori di bocce, dipinti da Paul Camenisch, altro componente del Rot-Blau: coloratissimi giovani dai capelli gialli rossi e blu vanno a punto o bocciano in una danza scomposta, allegra. Il terzo quadro è un interno di Albert Müller, del 1924: al centro un tavolo illuminato da una lampada rossa e tre donne dal viso cupo, riunite in un locale esiguo sullo sfondo della parete verde.

Per quanto riguarda i locarnesi mi limito a citare lo straziato, e straziante, San Sebastiano di Ignaz Epper, le montagne allucinate di Marianne Von Werefkin e gli inchiostri di Johannes Robert Schürch, il pittore che forse più di altri ha mostrato, in un modo che sempre emoziona, la nostra faccia in ombra.

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