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Frammenti di terre alla Collezione Olgiati

Il nuovo allestimento dello Spazio -1 al Lac permette di scoprire segmenti di contatto tra realtà che difficilmente avremmo avvicinato di nostra iniziativa

Alberto Burri, ‘Bianco nero cretto’, 1972
19 aprile 2021
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Dopo la gradita mostra dedicata dal museo di Mendrisio al lavoro di André Derain grazie alla quale era possibile, tra le altre cose, saggiare nella pratica compositiva il concetto di libertà espressiva dell’artista, il nuovo allestimento della collezione Olgiati allo Spazio -1 di Lugano ci offre una nuova boccata di ossigeno nella asfittica atmosfera ticinese e compensa in piccola parte la mancanza di programmazione di altre sedi.

Quando fruiamo dell’allestimento di una collezione privata dobbiamo ricordarci che la natura stessa del materiale al quale attingiamo è peculiare: è il frutto della attività delle acquisizioni e chi ha allestito non ha infatti chiesto prestiti ma ha organizzato in un determinato modo il materiale di cui dispone. La coppia Danna Battaglia-Giancarlo Olgiati è assortita con due personalità ben distinte e complementari, la collezione ha più anime storiche alle quali si somma il lavoro compiuto in coppia e tutto ciò genera gli effetti da noi sperimentabili quando la visitiamo. Inoltre siamo abituati, grazie al piglio appropriativo che contrassegna gli allestimenti in quella realtà, a vedere esposti lavori dei quali possiamo percepire una sorta di trasfigurazione: gli allestimenti possono condurre il significato percepito delle opere in un’area inedita. Ricordo ancora il nudo maschile di Paloma Varga Weisz nella mostra dedicata al concetto di croce, qualche tempo fa. 

Con “Terre” veniamo accolti in un mondo popolato da soggetti diversi e anche distanti e scopriamo segmenti di contatto tra realtà che difficilmente avremmo avvicinato di nostra iniziativa. A proposito del venire accolti, in fondo alla scalinata che ci fa accedere agli spazi ci imbattiamo in una monumentale serie di quadri di Zoran Mušič, artista importante del XX secolo, molto presente nelle collezioni ticinesi (in anni recenti abbiamo visto ciò che è stato raccolto da Gabriele Braglia e da Mario Matasci) a proposito del quale la coppia Battaglia-Olgiati ha da proporci uno scorcio notevole. Sono cinque lavori che trattano, indubbiamente, della terra: il paesaggio senese è un paesaggio di terra; i titoli ‘Terre Dalmate’ e ‘Terra d’Istria’ parlano da soli, con il ‘Motivo vegetale’ siamo nello stesso luogo ma il legame tra i lavori di Mušič e il concetto di terra è più profondo, complesso e, è proprio il caso di dire, ramificato e radicato di quanto non emerga da una rassegna meramente nominalistica e peraltro prelude ai trattamenti che troveremo, pochi metri più avanti, nel lavoro di Antoni Tapies, in quello di Jean Dubuffet, in quello di Mac Ernst e poi di Anselm Kiefer. È un legame fatto di attitudine materica ed esigenza di eradicazione di un linguaggio astratto dalla realtà che è però presente nella figurazione. In questo senso i lavori di Mušič sono monumentali: per lo sforzo che esprimono di contenere memoria e azzardo, liricità e leziosità descrittiva ed espressionismo evocativo. 

Nella stessa sala, oltre a un lavoro in cui Emilio Vedova ambisce a radunare pittura, architettura e scena teatrale, ci sono due presenze molto distanti da Zoran Mušič, complementari e di grande bellezza: il cretto di Alberto Burri e la statua informale di Leoncillo. Siamo di fronte a due circostanze in cui l’artista si misura con una realtà che emana dalla terra: la screpolatura di una superficie che si inaridisce (cosa che succede con il suolo ma anche con la pittura e si chiama craquelure); la plasticità che è possibile conferire a una terracotta. 

Nel secondo spazio, messa da parte una scultura meccanica di Rebecca Horn, ci imbattiamo in una serie nella quale il concetto della mostra viene trattato in modo diverso da artisti e in periodi ben distinti: è una narrazione metrica frammentaria nella quale ogni componente ci dice di avere qualcosa delle altre con le quali non sarebbe, fuori da quella narrazione, in relazione: gli autori sono Antoni Tàpies, Max Ernst, Jean Dubuffet, Arturo Martini e da lì siamo proiettati al grande quadro di Markus Lupertz dove l’immagine di un magma terroso è giustapposto alla evocazione della mitologia classica che poi ci proietta verso il grande lavoro di Anselm Kiefer con il quale, nel mio vissuto, si chiude visivamente l’allestimento. 

Tra Lupertz e Kiefer c’è però tutto un mondo intermedio dove stanno Enrico Prampolini ed Eliseo Mattiacci e potrebbe interessante indugiare sul modo in cui queste due personalità riescono a interagire ma la cosa che più mi ha colpito è come la varietà citata a proposito della sequenza nella seconda sala si ripresenti nei quattro lavori di Prampolini che peraltro è protagonista di una delle anime storiche della collezione Olgiati. 

Con Prampolini il concetto di terra è trasferito in una surrealtà, non soltanto per il contenuto iconografico e morfologico ma per l’articolazione dei modi in cui esso si trasferisce nell’area più vasta e simbolica della materia.

Non è necessario riprenderne tutte le componenti per dire che l’allestimento è un prodotto formale compiuto. Le singole opere sono frammenti che evocano i mondi nei quali si articolano le loro radici; contemporaneamente, costituiscono un sistema metrico funzionale a una narrazione caratterizzata da unitarietà e unicità.

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