Arte

A Mendrisio l'onnivoro André Derin

'Sperimentatore controcorrente', padre dimenticato poi recuperato: dal 27 settembre al 31 gennaio 2021 il Museo dell'arte ne ospita la retrospettiva.

Le Maquignon 1904-1905, acquerello su carta 42.7 x 61 cm (Musée d’Art moderne, Troyes. Donazione Pierre e Denise Lévy, 1976 © 2020, ProLitteris, Zurich)
26 settembre 2020
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Vi hanno collaborato la nipote, il biografo e il meglio degli istituti francesi, Centre Pompidou in testa. ‘André Derain. Sperimentatore controcorrente’ apre domenica 27 settembre al Museo d’arte di Mendrisio per restarvi sino al 31 gennaio del prossimo anno, introdotto da un gigantesco ritratto del ‘rivoluzionario’ francese scattato nel 1928 dal fotografo Rogi André e, poco più avanti, da un virgolettato di Alberto Giacometti, uno dei pochi che quando Derain, dall’avanguardismo, cambia rotta, continua a capirlo: “Derain è il pittore che mi appassiona di più, colui che mi ha dato e insegnato dopo Cézanne.

Il viaggio

La storia di André Derain (1880-1954) è raccontata dal direttore del Museo dell’arte, Simone Soldini, che ha curato la mostra insieme a Barbara Paltenghi Malacrida, storica dell’arte e collaboratrice scientifica del museo, e Francesco Poli, storico dell’arte e accademico italiano. «L’idea è nata fuori dal Pompidou, bevendoci un caffè seduti a un tavolino», spiega Soldini, «entusiasmato dall’opera e dall’artista dimenticato», tornato alla luce a metà anni Novanta grazie alla storica dell’arte Suzanne Pagé e al biografo Michel Charzat, il cui ‘Ritratto faustiano dell’artista’ apre il catalogo della mostra di Mendrisio. La gigantografia all’ingresso del museo è un tributo alla «personalità straordinaria, alle qualità intellettuali e artigianali, e insieme al suo lato maliconico e ascetico», da cui l’isolamento e poi l’eclissi totale di un artista che – erede dell’impressionismo, iniziatore del fauvismo, uno dei padri del cubismo e precursore del ritorno al classicismo – fu accomunato per decenni a Picasso e Matisse. Il perché del successivo oblio riassunto da Soldini è da ritrovarsi – punto primo – nella villa confiscatagli dai nazisti con tutti i suoi beni, per riavere la quale accetta di unirsi allo «sciagurato viaggio» del quale ancora, alla nipote, viene chiesto di rendere conto. Un viaggio comprendente altri artisti e guidato da Arno Breker, scultore vicino al Terzo Reich; un viaggio per il quale Derain subì condanne.

Altro oblio – punto secondo – gli verrà dalle scelte artistiche prese dopo la guerra: l’addio all’avanguardismo, che André Breton e Giorgio De Chirico non gli perdoneranno, la scoperta del classicismo in Italia, l’arte romana, quella africana, Raffaello. Quella certezza che «non c’è differenza tra l’arte dell’Antica Grecia e Cézanne, un senso d’eternità che pochi capiscono» e invece Giacometti sì, confermato nelle sue certezze su Derain dall’aver visitato una mostra a lui dedicata nel 1954, ma folgorato da una sua tela già nel 1936 (“Ecco, da quel momento in poi, ogni suo quadro, senza eccezioni, mi ha obbligato a fermarmi, costretto a un lungo sguardo in cerca di tutto ciò che stava al di là”, racconta il ticinese in un estratto dell’articolo scritto in memoria di Derain sulla rivista ‘Derrière le miroir’ nel 1957).

'Bizantino'

La retrospettiva su Derain, che affolla la presentazione, consta di 70 dipinti, 30 opere su carta, 20 sculture, 25 progetti per costumi e scene teatrali, illustrazioni, ceramiche e fotografie, segno dell’esplosività dell’artista, folgorato dal teatro, dalla danza, dalla musica. Il tutto riunito secondo un principio di generi, non cronologicamente. Con finestra sull’avanguardia del Derain ‘divoratore’ fino alla fase gotica o ‘bizantina’ (definizione che incanta Giacometti, che sottolinea come l’amico sia l’unico a vantare un periodo della propria arte chiamato così). Il Derain «personalità onnivora», il pittore prestato alle arti sceniche che disegna costumi, scenografie, sipari, coreografie, che scrive libretti e dà indicazioni ai ballerini per il trucco è illustrato da Barbara Paltenghi Malacrida. E così l’appassionato di musica, collezionista di strumenti, suonatore di tromba, corno e clavicembalo, grande amico di Erik Satie (“Senza di lui non so cosa sarei diventato” diceva il pittore del pianista). Di entrambi, alla morte, si ritroveranno progetti comuni mai realizzati, nonché l’idea di fondare una compagnia per rinnovare l’arte della danza. E la musica è negli eventi collaterali alla mostra: il recital del tenore Francesco Meli, con allestimento visual creato da Roberto Micchiut sulle opere esposte. E poi conferenze (8 ottobre al Museo, 21 novembre a LaFilanda), il 'Pomeriggio al museo' per i bimbi il 18 novembre e – data da definirsi – le lettere scritte da Derain alla moglie Alice durante la mobilitazione per la Grande Guerra, lette a Mendrisio da Geneviève Taillade, pronipote dell’artista.

Il mistero

'Sperimentatore controcorrente', che dei due aggettivi ne basterebbe uno. «Traditore per gli avanguardisti, disturbante per gli accademici», per usare parole di Francesco Poli nel definirne fascino e ambiguità. Lungo i corridoi delle matite e dei carboncini, dei ritratti e dei paesaggi, appesi ai verdi delle nature morte delle due ‘Table garnie’ e dei ‘Paysage’ (tanto il ‘triste’ quanto il ‘sinistro’), persi nella molteplicità e disorientati quanto basta, nel post-conferenza ci viene in soccorso Poli: «Attaversa i temi e sperimenta le modalità della pittura, prende questi stilismi, non fa citazioni ma rimandi, e li reinventa in chiave personale. C’è un’atmosfera cromatica sua, che è quella dei toni scuri, ocra, verdi, estremamente derainiani. Ma se lei cerca lo stile riconoscibile, quello è qualcosa di più facile. Uno come Chagall, per esempio, ha inventato le sue cose dal ’10 al ’20 e poi ha ripetuto sempre le stesse. Nessuna ricerca. Piace di più, ma ad altri può non incuriosire». Negli ‘altri’ c’è chi parla: «Da parecchi anni ho un interesse per il suo essere contraddittorio, anche fastidioso. Derain affascina e respinge, un fatto molto d’avanguardia. Non ci teneva proprio a fare cose armoniose, alla natura morta equilibrata, ai nudi in posizione classica, e li mette in crisi. In un certo senso, l’avanguardia non l’ha mai lasciata. Vale per altri, per De Chirico e i suoi nudi alla Rubens, le Venezie alla Canaletto». In sintesi: «Derain è un artista più complesso da conoscere. Non ha da raccontare. L’unica cosa che vuole raccontare è la pittura stessa, il lavoro, il segreto, la ricerca ‘alchemica’, il tentativo di scoprire il mistero impossibile, l’anima stessa della pittura. Quello è il contenuto, che è invisibile. E lui lo cerca. Disperatamente».

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