Arte

Biennale Val Bregaglia, giochi semantici naturali

Artisti misurati con la cultura del luogo e con la sua storia. Gli interventi di Roman Signer, con la grande torre, e Alex Dorici, col pertugio nelle antiche mura

Alex Dorici
11 luglio 2020
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La Biennale della Val Bregaglia ha aperto la sua prima edizione in questi giorni, dopo almeno un decennio di attività di organizzazione di eventi artistici sul territorio (il 2017 fu l’occasione di Arte Albigna mentre nel 2018 ci fu Arte Castasegna). Undici interventi di artisti in una distribuzione sul territorio che circonda il nucleo di Nossa Dona e dello sbarramento fortificato di Lan Müraia, nei pressi di Promontogno. Si tratta di una realtà sedimentata di interventi edificati con lo scopo di presidiare una zona di passaggio alpina; spiccano le fortificazioni millenarie, la grande torre della quale rimane il mastodontico perimetro murario, le edificazioni in stile storicista progettate dall’architetto Giovanni Sottovia alla fine dell’Ottocento per la famiglia Castelmur.

Gli interventi sono distribuiti in uno spazio relativamente contenuto e il pubblico può fruirne con una bella passeggiata tra il nucleo che sta intorno agli edifici ottocenteschi insieme alla antica torre e il bosco sottostante, fino alla antica via di passaggio. È interessante il modo in cui gli artisti si sono misurati con la cultura naturale del luogo e con la sua storia, cercando soluzioni formali il cui sviluppo talvolta incespica o resta invischiato in procedure scolastiche, riuscendo nondimeno a suggerire soluzioni parziali utili, a parte il contributo sciatto di Not Vital che ha fatto il furbo appoggiando sulla scarpata sotto la torre alcuni simulacri di balle di paglia in metallo dipinto di bianco.

Verticalità terra-cielo

Vale la pena di indugiare sul modo in cui due interventi mettono in atto sistemi di ridefinizione semantica della percezione dei luoghi: Roman Signer con la grande torre e Alex Dorici con il pertugio lasciato dalle mura sulla antica via di passaggio. Circondata dagli edifici progettati da Giovanni Sottovia, campeggia sulla valle una architettura ormai vuota, una grande torre a pianta quadrata. Camminando nel paesaggio possiamo circondarne il perimetro e ammirare l’altezza dei muri in pietra grigia, appoggiando il nostro sguardo sulla sua cima orizzontale che interagisce con le cuspidi della chiesa e della villa.

Per la Biennale Roman Signer ha dotato la torre di una scala in legno chiaro, un manufatto elegante che la decora con un invito a salire sulla parte più alta. In un primo momento l’invito può sembrare eminentemente visivo, come se la scala fosse solo un legante organico tra la pietra della torre, il paesaggio e la versione di 7/10/2020, 7/10/2020 p. 2 di geografia. Tuttavia sappiamo che essa è percorribile e quando siamo in cima accediamo a un affaccio che ci offre un punto di vista. Qui il gioco semantico di Signer, proposto con la sua consueta intelligenza e per un risultato felice, rimbalza su fruizioni e significati ulteriori. Siamo su un affaccio ma ci rendiamo conto che esso è invertito: dall’esterno ci consente di godere dell’interno che è, in effetti, un paesaggio naturale perché la natura si è impossessata dello spazio interno alla torre nel quale campeggia un grande e leggero albero.

Ecco quindi che la torre ci viene proposta non tanto nella qualità di edificio ma di spazio delimitato e costruito tra la natura e la natura, tra quella più controllata dalla presenza umana (l’esterno con gli edifici progettati e i camminamenti curati) e quella più incontrollata dove si è organizzata in modo spontaneo (l’interno abbandonato). I muri diventano così una verticalità tra terra e cielo lungo la quale noi siamo percettivamente ed emozionalmente sospinti. Con un ulteriore rimbalzo semantico, ci accorgiamo di un secchio sospeso a metà del volume che duplica la direzione della verticalità. L’anelito di cielo indotto dalla torre piazzata sulla terra viene capovolto e il secchio ci proietta nel cielo dal quale sogniamo di pescare ciò che è circoscritto dai quattro muri di pietra, a questo punto diventati il perimetro di un pozzo celeste.

Evocativa didascalia

Alex Dorici ci propone un gioco diverso ma che agisce ancora sulla nostra disponibilità a essere interconnessi ai segni storici e naturali e simultaneamente a viverli con modalità dislocate. In un pertugio lasciato tra due segmenti di muro fortificato, al di sopra della via di passaggio, Dorici evoca la vecchia porta doganale con un arco che dice di proteggere dai numi del cielo, interagisce con le condizioni geografiche e atmosferiche e accoglie chi passa nel di qua e nel di là del muro che ormai non racchiude né protegge né limita né controlla niente, ridotto dalla storia a mero segno in pietra. Alex Dorici approfitta di questo nonsense generato dal tempo e svolge un proprio esercizio di nonsense gentilmente ammiccante. Siamo noi a decidere cosa prendere con lo sguardo, all’interno o all’esterno dei tasselli vuoti che compongono la griglia scomposta dall’artista.

La felicità del lavoro di Dorici è radicata sulla sua capacità di non rinunciare al proprio segno prettamente metropolitano e di adagiarlo in modo delicato, con il consueto piglio grafico, sia al muro rispetto al quale la struttura dell’arco è adiacente ma non versione di 7/10/2020, 7/10/2020 p. 3 di interferisce, sia ai paesaggi che si configurano alla nostra esperienza. Da qualunque punto noi ci poniamo rispetto all’arco di metallo rosso, esso ci offre una alterazione e un disturbo percettivo gradevoli, accentua per noi, se siamo disponibili alla sollecitazione, le presenze geografiche e paesaggistiche e si pone in spontanea relazione con gli elementi del contesto i quali sembrano volerlo accogliere come lo stortignaccolo bastone di un sornione mago in transito. Penso, per esempio, oltre alle montagne, alle fantasmatiche figure dei tralicci e alle cuspidi degli edifici di Sottovia, delle quali l’arco di Alex Dorici diventa una evocativa didascalia.

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