L'APPROFONDIMENTO

Dopo i fenicotteri rosa, le scarpe dei detenuti

Da oggi in allestimento in Piazza Manzoni a Lugano la nuova installazione (realizzata con i carcerati) dell'artista locarnese Oppy De Bernardo

Il lavoro di preparazione di Panopticon, in carcere
(Giulia De Luca)
25 ottobre 2019
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Una scarpa colorata, senza stringhe, essenziale. Ripresa quasi fosse un oggetto di moda. E poi “Panopticon”, il guardiano dai mille occhi delle mitologia greca, poi diventato modello del carcere perfetto teorizzato da Jeremy Bentham. E la firma: Oppy De Bernardo, locarnese, classe ’70, uno fra gli artisti più singolari della scena ticinese, conosciuto per le sue iniziative spettacolari, spiazzanti, a volte persino urtanti, ma mai fini a sé stesse perché sempre ci dicono di noi qualcosa che non per forza finirà per piacerci.

Sono gli elementi – volutamente piuttosto criptici – del manifesto dell’installazione che da domani (inaugurazione alle 17) al 14 novembre animerà Piazza Manzoni a Lugano. «Lo spunto per questa nuova iniziativa artistica nasce da una riflessione di Luigi Pirandello – spiega De Bernardo alla “Regione” –. La riflessione è la seguente: “Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere, mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io, e rialzati come ho fatto io”. Così, proprio dalle scarpe nasce il mio, di invito alla riflessione. Le scarpe utilizzate per l’installazione appartengono a dei carcerati».

Detenuti con cui Oppy si è lungamente confrontato – alla Stampa di Cadro e nel carcere di Bollate a Milano – sul tema della redenzione, della seconda possibilità, di un nuovo percorso esistenziale dopo il periodo di privazione della libertà. Lo ha fatto chiedendo appunto a uomini e donne vecchie calzature dismesse, che ha poi riprodotto – tramite stampi in negativo in gomma siliconica – in circa 2’000 esemplari. «L’ampio “fiore della vita” che sarà realizzato con questi nuovi elementi artistici rimanda al Panopticon, il modello di carcere ideale teorizzato da Bentham alla fine del ’700». In Piazza Manzoni, come rilevato dallo scrittore e curatore Michele Robecchi, il Panopticon “diventa una testimonianza silenziosa sui percorsi di vita della società in attesa di una riabilitazione senza pregiudizi”. Non solo. In carcere a Lugano verrà realizzata una sorta di catalogo d’arte in cui le immagini scattate dalla fotografa Giulia De Luca «presentano una rielaborazione visiva delle scarpe, che assumono così una valenza del tutto diversa rispetto a quella originaria», spiega Oppy. Che a proposito di quest’esperienza sottolinea la collaborazione della Città di Lugano e del Dipartimento istituzioni in Ticino, e della Direzione del carcere di Bollate (Cosima Buccoliero) grazie ai buoni uffici della psicoanalista Marina Valcarenghi. Inoltre, un documentario è in elaborazione da parte di Giotto Parini, che ha seguito i lavori, filmandoli.


T-Press
Oppy De Bernardo con i suoi collaboratori in Piazza Grande

L’idea di mantenere l’installazione “libera” fino al 14 novembre rievoca i trascorsi locarnesi di “Apolide” (vedi sotto), l’installazione sui migranti realizzata con i gonfiabili colorati prima aspramente commentata anche a livello politico, poi circolata via social in tutto il mondo e infine vandalizzata e fatta letteralmente sparire prima del termine da orde di passanti incivili. «La scelta della massima fruibilità, del contatto diretto, rimane volutamente anche per il Panopticon – dice De Bernardo – perché fra gli aspetti che maggiormente mi interessano v’è proprio quello riguardante la reazione e l’interazione della gente. Non so se il “fiore della vita” verrà disperso in pochi giorni, o se resisterà. In un caso o nell’altro, avremo motivi diversi di riflessione su noi stessi».

Il precedente: ‘Apolide’, Piazza Grande in prestito

Prima erano stati i fenicotteri rosa in Piazza Grande a Locarno – l’installazione denominata “Apolide” –, e prima ancora, anni fa, i famosi 5’ di proiezione “buia” proposti al Rialto di Muralto (“Campione no. 1”). Oppy De Bernardo è un artista che ama giocare sul fattore sorpresa, sul pungolare la curiosità della gente per poi stupirla; sul proporre, idealmente parlando, grandi “manifesti”, di notevole impatto, i cui veri messaggi, mai banali, si leggono in filigrana.
“Apolide”, realizzata a Locarno sotto la Pasqua dell’anno scorso, consisteva in 6’500 salvagenti di plastica di ogni forma e colore (ma il “dominio” cromatico era detenuto dai fenicotteri rosa) che richiamavano il tema delle migrazioni. Per concretizzare, aveva chiesto in prestito Piazza Grande per 15 giorni. Ne era venuto fuori di tutto: un dibattito trasversale, le immancabili proteste della destra, persino furti e vandalismi in serie, e in ultima analisi un’ondata di condivisioni – social e non – che aveva letteralmente fatto il giro del mondo.

L’arte – ha sempre detto Oppy – “è una cosa divertente che va fatta con serietà; ed è l’unico mezzo per non risolvere particolari questioni, ma per indurre le persone a rifletterci seriamente”.


Ti-Press
La preparazione di Apolide, l'anno scorso a Locarno

Alla Stampa: Laffranchini: ‘Missione del carcere è risocializzare’

«Quando si tratta di fare cose un po’ fuori dall’ordinario... com’è prevedibile i detenuti reagiscono sempre molto volentieri». Stefano Laffranchini, direttore delle strutture carcerarie ticinesi, ha colto con favore l’opportunità artistica lanciata da Oppy: «Alla Stampa abbiamo i laboratori di falegnameria, stamperia, targhe, più quelli di servizio come cucina, lavanderia, eccetera, che assieme fanno 125 posti di lavoro per 150 detenuti. Si tratta, in generale, di impegni assunti volentieri, per sei ore (retribuite) al giorno, quali alternative allo starsene semplicemente in cella a guardare la televisione. In questo caso, approfittando del trasferimento di un laboratorio e di una minor necessità di detenuti, alcune persone sono state destinate al lavoro artistico e l’hanno svolto, devo dire, con grande curiosità e impegno».

In merito all’approccio avuto in carcere al tema specifico – la libertà, la possibilità di una redenzione, l’invito rivolto al pubblico di “mettersi nelle scarpe degli altri” – Laffranchini ricorda che «il fatto di lavorare su tematiche di questo genere è stato interessante e senz’altro importante. La missione stessa di un carcere, secondo l’articolo 75 del Codice penale, è in primo luogo la risocializzazione, la capacità di tornare a vivere esenti da pena. Dal profilo simbolico il cimento era dunque perfettamente centrato. Poi è anche vero che per necessità dell’artista, che giustamente, com’è suo costume, voleva mantenere anche una certa segretezza circa le modalità concrete dell’installazione, abbiamo voluto dire il meno possibile. Ma comunque il contesto – c’erano anche delle riprese filmate – era tale da stimolare e indurre delle riflessioni».


Giulia De Luca

A Bollate: ‘È molto piaciuto il messaggio di condivisione’

La proposta artistica originaria era giunta con Oppy a Bollate – nella Casa di reclusione di Milano – con sembianze diverse rispetto a quelle poi stabilite:  «Diciamo – ricorda l’educatrice Catia Bianchi – che è stata un po’ “maneggiata”, ridefinita, fino alla soluzione del mandala con le scarpe delle persone detenute, che richiamasse la bellissima frase di Pirandello». Con l’artista, aggiunge Bianchi, «abbiamo avuto a che fare già a partire da un anno fa e durante questo periodo Oppy è venuto in commissione cultura (una rappresentanza dei detenuti) diverse volte, fino all’ultimazione del lavoro. Abbiamo impiegato, fra commissione cultura e chi ha realizzato concretamente le scarpe, una ventina di detenuti fra uomini e donne. Essendo stata così lunga e in qualche modo elaborata, la preparazione è stata vissuta in maniera partecipata». Partecipata, anche, in relazione alla sorta di «gemellaggio virtuale» con il carcere ticinese: «Di ciò che succedeva alla Stampa sapevamo poco, ma ciò non toglie che si è comunque stabilita una certa relazione a distanza». Secondo l’educatrice, «la cosa che ha colpito maggiormente i detenuti coinvolti è stato il fatto di poter raggiungere le persone attraverso il messaggio del “mettersi nelle scarpe degli altri” prima di giudicare, e quindi il sentirsi meno giudicati per quanto consapevoli di aver commesso dei reati. È molto piaciuto questo messaggio di condivisione; della scarpa come oggetto utilizzato da tutti, e in questo caso per cercare di immedesimarsi nella vita altrui». Vista l’ovvia impossibilità di partecipare coi detenuti all’evento artistico luganese, l’educatrice spera in un futuro allestimento milanese.

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