Arte

I quadri e le cose

Le opere di René Magritte, in mostra a Lugano fino al 6 gennaio, come riflessione sulla verità del reale

(TiPress)
31 dicembre 2018
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Con la sua pittura Magritte afferma che la verità del reale, l’essenza delle cose, sfuggirà sempre a qualsiasi tentativo di presa o di rappresentazione

Quando si pensa a Magritte (1898-1964) subito si affacciano alla mente sorprendenti immagini di castelli incantati che volano alti sul filo delle onde o di case immerse nelle buio della notte sotto cieli diurni carichi di luce: è il filone coinvolgente della sorpresa, della poesia e dell’incanto, dell’enigma e del mistero, oppure dell’ambiguo o del paradosso fino all’apparente assurdità. Ma è anche quello che matura dopo. Ai suoi inizi, nel corso del primo decennio, la sua pittura era diversa, con una buona fetta di cui si parla poco perché non coinvolge affatto lo spettatore anzi lo lascia piuttosto smarrito di fronte a pitture incomprensibili: come quella del 1928 con un orologio al centro affiancato da due nuvolette giallastre dentro cui appaiono le scritte “cielo” e “cannone”. Ma altre ce ne sono, sempre di quei suoi primi anni, che rappresentano un uovo sotto cui corre la scritta “acacia” o una brocca con la didascalia “uccello”; il più celebre è senza dubbio quel suo dipinto del ’29 raffigurante una pipa sotto la quale corre la scritta “Ceci n’est pas un pipe” (che tradotto liberamente suona come: questo coso che voi vedete non è una pipa). È chiaro che, in queste sue pitture, l’interesse di Magritte non verte tanto sulla sorpresa dei suoi strani assemblaggi, quanto piuttosto sul disorientamento di un incontro che sollecita un’operazione semantica.

È importante chiarire il significato di quelle opere perché da lì si sviluppa poi tutto il percorso successivo. In esse Magritte affronta una problematica di natura concettuale che potremmo sciogliere in questi termini: come non c’è alcuna relazione stringente (salvo per le voci onomatopeiche) tra il nome dato a una certa cosa (vale a dire suoni e lettere che lo designano) e la sua essenza (ciò che davvero è), analogamente non c’è alcuna relazione diretta tra la forma di un dato oggetto e il nome che la identifica. In altre parole: come non c’è nessun motivo per cui una mela si debba chiamare mela (tant’è che nelle altre lingue la si chiama diversamente), analogamente non c’è nessun legame diretto tra la forma di una mela, il nome che la designa e ciò che quella cosa è. La realtà di una mela o di un uomo non coincidono, insomma, con il nome o la forma con cui normalmente la si “identifica”: termine che chiama in causa l’identità, ciò che una cosa è. Volete una prova? Se davvero A (l’oggetto) è uguale a B (il nome) allora, come la matematica insegna, si potrebbe sempre sostituire l’uno con l’altro e il prodotto non cambia. Come appunto fa lui quando mette il nome di una cosa anziché la sua raffigurazione dipinta: ma in arte la cosa non funziona o, perlomeno, lascia insoddisfatti e smarriti.

Tradotto in parole povere questo significa l’impossibilità di cogliere o fissare il reale limitandoci al nome o alla forma esterna di un oggetto. Dato che qui si sconfina nella filosofia del linguaggio, ci si potrebbe interrogare sul perché di tanta acribia da parte di un artista. La risposta è dietro l’angolo, ed è da pittore e da pittore surrealista: vale a dire che la pretesa di cogliere la verità delle cose attenendosi al “realismo” delle forme è una pia illusione, un perenne velo di Maya che, oltre ad aver sorretto secoli di storia non solo dell’arte, veniva rilanciato, in quel giro d’anni, dal cosiddetto “ritorno all’ordine” non di rado associato proprio al realismo visto come rimedio contro la dirompenza delle avanguardie. Magritte con la sua pittura afferma che la verità del reale, l’essenza delle cose sfuggirà sempre a qualsiasi tentativo di presa o di rappresentazione “realistica”; la poesia e l’arte, se ben usati, possono invece esser mezzi che ci consentono di averne consapevolezza e percepirne almeno una parte.

Al di là dei suoi modi garbati e dell’apparente innocenza dei suoi dipinti, Magritte fa un’entrata a gamba tesa – molto puntuale e singolarmente distintiva – dentro le riflessioni allora molto stringenti su ruolo, funzione ed essenza dell’arte. In un momento, per di più, in cui il surrealismo svelava ben altre realtà fino ad allora ignorate e assai più condizionanti delle apparenze esterne. Poi, verso la metà degli anni Trenta, verranno anche la poesia dei suoi cieli azzurri e il mistero delle sue stanze. Però è solo rapportando gli uni agli altri che il cerchio si chiude e i due ambiti si incrociano, dimostrando non solo l’attualità e la consonanza di Magritte con il pensiero moderno e lo spirito dei tempi (surrealismo), ma facendo di lui anche un ponte tra istanze del passato (dada) ed altre che matureranno con il New Dada e con l’arte concettuale.

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