Culture

Isolati

Witzwil, a sinistra Vasco Guerini
23 gennaio 2016
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Isole, illusioni e allusioni / 1

Isole avulse dal reale o luoghi di riabilitazione sociale? Secondo alcuni le prigioni sono l’unità attraverso la quale misurare un Paese. Guidati da uno psicologo ticinese, abbiamo visitato il penitenziario di Witzwil, il carcere aperto più grande della Svizzera; interrogandoci sugli effetti dell’isolamento e sui meccanismi psicologici che accom- pagnano la privazione della libertà: tra punizione e risocializzazione.

Witzwil, è un cupo pomeriggio di metà gennaio. Tra le vaste pianure della campagna bernese, un lungo viale porta all’entrata della prigione. L’imponente cancello rosso si apre lentamente sotto la pioggia battente. All’interno delle alte recinzioni non si capisce bene se ci si trovi in un carcere, oppure in una grandissima fattoria. Witzwil è infatti anche questo: la maggiore azienda agricola svizzera. Stalle che ospitano più di 450 mucche, un allevamento di maiali, una scuderia nella quale sono accuditi un centinaio di cavalli, grandi edifici per lo stoccaggio dei prodotti alimentari coltivati negli 825 ettari di campi della struttura. «Poi ci sono la macelleria, la falegnameria e i reparti per la manutenzione dei veicoli e macchinari agricoli» spiega sicuro il ticinese Vasco Guerini; da quasi due anni attivo come psicologo nella prigione.

La definizione ‘Carcere aperto’ sembra un ossimoro. Che cosa significa esattamente?
In linea di massima le carceri si dividono secondo regimi che vanno da quello chiuso a quello aperto. In un regime chiuso il ruolo del carcere è prevalentemente di controllo, mentre in uno aperto riabilitativo. Se l’inizio della pena è maggiormente improntato al compito punitivo, la seconda fase mira invece alla riabilitazione dell’individuo. Inoltre, anche le singole strutture suddividono gli spazi in diverse zone. Qui a Witzwil ad esempio, il penitenziario è strutturato in tre aree che corrispondono a tre diversi livelli di sicurezza e di libertà di movimento dei detenuti. Libertà che rispecchiano anche diversi tipi di rischio, come ad esempio il pericolo di fuga. Variabili che valutiamo prima del loro arrivo e durante la loro permanenza. In funzione di questi giudizi concediamo un accesso, generalmente graduale, a un determinato livello di apertura nel quadro dell’esecuzione della pena.

Oltre alle evidenti ragioni di sicurezza, quale è lo scopo di strutturare il carcere con questi tre diversi livelli di ‘apertura’?
I tre livelli corrispondono alla graduale risocializzazione del prigioniero. Si tratta di un’evoluzione che riconosce man mano più fiducia alla persona. Quando un detenuto soddisfa determinati criteri per essere idoneo ad un certo ambiente, è assegnato a un regime più aperto e quindi più libero. Questo corrisponde all’avere più responsabilità e soprattutto alla possibilità di dimostrare di essere pronto a inserirsi nuovamente nella società. Non si tratta solo di una libertà fisica, ma anche di quella psicologica di gestire il proprio tempo libero o di assumere maggiore autonomia nei compiti svolti nell’azienda agricola. Abbiamo dei detenuti che, pur dovendosi registrare in uscita e in entrata, possono andare a lavorare nei campi o addirittura in aziende vicine. Anche se un controllo rimane necessario, dare fiducia a un carcerato e lasciarlo in libertà nelle campagne adiacenti alla casa circondariale per andare a occuparsi delle mucche in una stalla, consapevoli che dopo aver svolto i compiti assegnati questo tornerà autonomamente in cella, è un processo rieducativo importante. Nell’ultima parte della pena alcuni possono addirittura alloggiare, quasi autonomamente, in un gruppo abitativo esterno al resto del carcere.

In molti, tra i più celebri Tolstoj e Dostoevskij, hanno sostenuto che per conoscere davvero un Paese sia necessario visitarne le carceri. Vedendo questa enorme azienda agricola si direbbe che la produttività elvetica si rispecchia anche all’interno delle prigioni…
La vita di questo luogo è fortemente dipendente dalla sua attività produttiva, che a sua volta è legata alle stagioni e ai ritmi della natura oltre che al mercato: la domanda e l’offerta. Da qui escono quotidianamente diversi camion carichi di prodotti alimentari. Il lavoro in questo tipo di carcere è fondamentale, perché è l’occupazione che permette di attivare il necessario processo di risocializzazione degli individui. Contribuisce a creare una sorta di routine positiva che inquadra la persona in una dinamica nella quale ha delle responsabilità e degli obblighi. I carcerati spesso sentono anche delle pressioni circa i tempi e la qualità di produzione. Quando c’è più domanda, il lavoro è maggiore, quando invece ce n’è meno, la pressione diminuisce, e il lavoro riabilitativo con i detenuti diviene maggiormente qualitativo in vista di una reintegrazione nella società che sia il più efficace possibile.

Quindi, il ruolo dello Stato nella rieducazione di un detenuto dipende anche dalla produttività aziendale condizionata dal mercato?
Diciamo che è compatibile. Anzi, forse addirittura rinforzato dalla produttività aziendale. Se un detenuto lavorasse sempre senza nessuna pressione di tempo e di obiettivi qualitativi, non riuscirebbe a proiettarsi in una dinamica sociale reale come quella che lo attende fuori dal carcere. Nel lavoro ci sono sfide e ostacoli da superare. Affinché possa prepararsi all’uscita, è bene che si realizzino delle condizioni il più possibile vicine a quelle del mondo reale. A Witzwil abbiamo introdotto un sistema di valutazione della performance simile a quello di molte aziende. Con degli obiettivi mensili di sviluppo e una valutazione giornaliera, sia del comportamento che della prestazione. I responsabili dei posti di lavoro valutano quindi sia l’atteggiamento, sia l’operato dei diversi carcerati. Va comunque detto che le oscillazioni del mercato che influenzano la produzione non sono enormi. E non bisogna dimenticare che qui alcuni detenuti, in mesi o anni di lavoro, riescono anche a imparare una nuova professione.

Quali sono le dinamiche psicologiche che si verificano nelle persone private della libertà e quale utilità hanno nel processo di punizione e rieducazione?
Una parte dei detenuti arriva dalla libertà, l’altra, di regola, da differenti prigioni di maggiore sicurezza. Per tutti vi è un cambiamento di ambiente che provoca loro un certo stress. Uno dei problemi di origine psichica in un carcere è quello della somatizzazione: la privazione della libertà si ripercuote, in modo diretto o indiretto, sul fisico. Altra questione è che molti detenuti che arrivano dalla libertà, non avendo un lavoro o avendo problemi di droga, hanno un ritmo di vita molto sregolato. Anche per questa ragione tutti sono inquadrati in un contesto di tempi e attività rigoroso. Si crea una sorta di routine positiva per la mente e per il corpo, guidata principalmente dal lavoro, e fatta di pasti sani e regolari, ma anche di sport e formazione. Grazie a questa quotidianità ordinata e al modo di impostare la propria vita, spesso cambia anche la presa di coscienza dei delitti commessi. Mi accorgo poi come la paura di perdere le persone care fuori dalla prigione sia uno dei più importanti fattori motivazionali che spingono i detenuti a migliorarsi.

Non le sembra illusorio pensare alle prigioni come vero luogo di riabilitazione sociale degli individui visto che in queste ‘isole’ si accumula tutta la criminalità?
Certamente questo è un rischio della detenzione. È spesso vero però anche il contrario: il carcere isola molte vite da abituali frequentazioni pericolose nella società libera. Qui a Witzwil poi si può costatare che il personale di un penitenziario aperto si pone come un modello di riferimento per i detenuti. Il fatto di passare molte ore al giorno a contatto con diverse figure professionali induce il carcerato non solo a imparare da loro un lavoro, ma anche un’attitudine, un atteggiamento, dei valori… Questo è un elemento fondamentale affinché, oltre a rappresentare una punizione, il carcere abbia anche una forte componente educativa, per permettere al detenuto di diventare una persona più utile a se stesso e alla società.

Isole, illusioni e allusioni

Anche se il nostro Paese non ha uno sbocco sul mare, è spesso dipinto come un’“isola felice”. Un’isola che si staglia sul burrascoso mare europeo. Un’isola con le sue regole, le sue abitudini e i suoi privilegi; cresciuta con le sue storie e la sua saggezza. Un po’ come l’Isola di Utopia, che si immaginò Thomas More agli inizi del Rinascimento inglese. Lo scorso anno, il World Happiness Report dell’Onu ha indicato la Svizzera come il Paese più felice del mondo. Ma esiste veramente questa società felice? È davvero un’eu-topia (un luogo felice), oppure è un ou-topia (un luogo che non esiste), un’isola che non c’è, un illusione? Per rispondere a questi interrogativi si parte alla scoperta di altre isole, delle loro società, dei loro abitanti. Un viaggio tra realtà e illusione. Dove l’illusione è da intendersi sia come utopia, sia come gioco, l’in-ludere. Un po’ come Gulliver, si attraccherà in isole metaforiche o reali, per conoscerne storie e abitanti: ticinesi, svizzeri e stranieri. Personaggi che hanno il privilegio di guardare alla Svizzera da un punto di vista esterno, da altre realtà territorialmente isolate che ben conoscono; dalle quali potranno raccontare la società elvetica del passato e del presente e magari alludere a quella del futuro. Seguendo il motto “conoscere gli altri per conoscere meglio se stessi”, è partito il viaggio alla ricerca dell’isola… che forse c’è.

 

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