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La porta digitale sul muso dei disoccupati

Una nuova ricerca mostra che gli strumenti informatici, per quanto utili, possono generare burocrazia e tagliare fuori i più deboli

(HEFR)
20 dicembre 2022
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Bella la digitalizzazione, per carità: fa risparmiare un sacco di carta e permette di controllare e gestire con fulminea efficienza qualsiasi processo e attività. Non a caso anche la Confederazione ne ha fatto un mantra. Il problema è che se coi computer e gli smartphone non ci sai fare – una delle tante conseguenze di appartenere a contesti deboli ed emarginati – ti trovi ancor più tagliato fuori. Una realtà che investe il lavoro, ma pure i diritti: ormai anche le pratiche per la disoccupazione e l’aiuto sociale richiedono l’utilizzo intensivo di strumenti digitali. E non è detto che la burocrazia diminuisca. Con quali conseguenze? Se lo sono chiesto i ricercatori della Scuola universitaria professionale in Lavoro sociale di Friburgo, che in tutta la Svizzera hanno interpellato quadri e professionisti di prima linea – quelli a contatto diretto con l’utenza – nel settore dell’inserimento professionale.

I risultati sono interessanti: proprio chi ha direttamente a che fare coi disoccupati e deve gestirne aiuti e ricerca di lavoro si dice scontento degli strumenti a sua disposizione (a differenza dei suoi superiori, che a quanto pare ne traggono maggior beneficio). «Chi lavora in prima linea ritiene anzitutto che la digitalizzazione abbia aumentato il carico di lavoro burocratico, invece di diminuirlo come ci si era ripromessi», osserva il professor Maël Dif-Pradalier, che da Friburgo ha coordinato la ricerca assieme al collega Thomas Jammet: «All’aumento di richieste di inserimento dati e reporting si abbina la percezione di un maggiore controllo non solo sui beneficiari delle prestazioni sociali, ad esempio per quanto riguarda l’esecuzione delle ricerche d’impiego, ma anche sugli stessi impiegati da parte dei loro capi».

Valutazione inadeguata

Se poi tutti concordano sulla necessità di buone competenze informatiche per trovare un lavoro, «l’80% degli interpellati di prima linea lamenta la mancanza di uno strumento comune per valutare tali competenze presso i beneficiari, in modo da poter operare in maniera omogenea, sistematica e coordinata invece di affidarsi alle conclusioni anche soggettive di un singolo valutatore, e offrire di conseguenza una formazione rivolta alle reali necessità della persona accompagnata in quel momento». Formazione che gli operatori auspicano d’altronde anche per loro stessi e che andrebbe comunque pensata nelle forme dell’aggiornamento continuo, perché come osserva Dif-Pradalier «le competenze digitali in uso oggi saranno obsolete, se non già domani, di certo dopodomani». La formazione andrà a sua volta pensata in modo più elastico d’uno sterile corso d’informatica, «facendo ad esempio leva su interessi e attività già praticate per sviluppare a partire da questi le competenze auspicate».

Che fare?

I ricercatori suggeriscono anche di lavorare sulle interfacce utilizzate dai disoccupati e dalle persone in assistenza (e da chi li segue) per renderli più facilmente accessibili. Per dirla in inglese: user-friendly. Un consiglio che fa il paio con la necessità di fornire a tutti i giusti strumenti informatici – ancora in inglese: software e hardware – perché come osserva Dif-Pradalier «oggi lo smartphone è diventato indispensabile, eppure proprio chi ne avrebbe più bisogno per il suo riscatto sociale rischia di non poterselo permettere. La pandemia ci ha fatto vedere bene le conseguenze dell’esclusione digitale, mentre potremmo definire le spese affrontate per queste necessità una tassa aggiuntiva sui poveri, da pagare per superare le barriere che li separano dai loro diritti». Oltre a garantire comunque la possibilità di svolgere certe pratiche e colloqui anche in luoghi fisici, lo studio suggerisce infine di sviluppare figure di «mediatrici e mediatori informatici, persone che accompagnino gli assistiti con i loro bisogni di natura digitale, proprio per permettergli di esercitare i loro diritti».

IN TICINO

Rizzi: ‘Digital first, non digital only’

Per capire meglio come si affronta la questione qui in Ticino, abbiamo rivolto alcune domande anche a Stefano Rizzi, direttore della Divisione dell’economia.

Disponete di uno strumento di misurazione oggettiva delle competenze informatiche di chi beneficia di un sussidio di disoccupazione?

Il rilevamento delle competenze, non solo digitali, è un aspetto centrale per offrire alle persone iscritte agli Uffici regionali di collocamento (Urc) un sostegno il più possibile adeguato ai loro bisogni. Nel solco di questo approccio sempre più personalizzato, è stata rinnovata l’offerta dei cosiddetti atelier per "tecniche di ricerche d’impiego" (Tri). La nuova impostazione prevede un approccio modulare, offerto alle persone all’inizio del loro percorso in disoccupazione, che permette agli organizzatori di questa misura di rilevare anche competenze e bisogni in ambito digitale.

Dunque come rispondete a tali bisogni?

In generale, i cosiddetti "provvedimenti del mercato del lavoro", messi a disposizione dei disoccupati, prevedono un approccio che favorisca il confronto e l’apprendimento con gli strumenti digitali nell’ambito della ricerca di un impiego (o dell’inserimento nel mondo del lavoro, in maniera più estesa). Per fare un esempio, gli atelier Tri appena citati prevedono anche delle misure di formazione in ambito digitale, con un focus sulle competenze di base, nonché sull’utilizzo dei moderni strumenti per migliorare le ricerche di impiego. Agli organizzatori di tutte le misure di sostegno offerte alle persone disoccupate nell’ambito della Ladi (Legge sull’assicurazione contro la disoccupazione, ndr) è quindi richiesta una sempre maggiore integrazione di aspetti digitali.

Molti operatori di ‘prima linea’ in Svizzera lamentano il fatto che la digitalizzazione genera burocrazia aggiuntiva invece di snellirla, e spesso i portali di servizio sono di difficile utilizzo per gli utenti. Come affrontate il problema?

Il ricorso a strumenti digitali non deve essere un fine, bensì un mezzo per svolgere il nostro lavoro in maniera più efficace, velocizzando e facilitando il contatto con le persone disoccupate nonché le procedure che queste ultime sono chiamate a svolgere. Ciò deve permettere di lasciare maggiore spazio alla consulenza e al sostegno, che rappresentano gli aspetti centrali del nostro lavoro.

La digitalizzazione rischia di tagliar fuori i nuovi ‘analfabeti digitali’. Cosa fate per evitarlo?

Per quanto attiene ai nostri servizi abbiamo un approccio orientato al principio del "digital first" e non del "digital only", garantendo quindi la possibilità anche a chi non possiede le competenze o gli strumenti digitali di accedere ai nostri servizi di persona e in maniera assistita.

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