laR+ Ticino

Telelavoro alla spina e altre fregature

Un saggio degli economisti Greppi e Marazzi mette in guardia circa alcuni processi di precarizzazione accelerati dalla pandemia

(Ti-Press)
20 dicembre 2021
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Telelavoro. Ovvero: fare da casa le stesse cose che si fanno in ufficio, ma con le pantofole e la tisanina fumante, risparmiandosi il traffico e le urla del capo. Ma anche: dover correre dai bimbi alla riunione in Zoom al telefono che squilla per un incarico malpagato, nella reclusione d’uno spazio angusto. Questo, sempre che il boss non faccia due conti e non si dica: “Se posso spostare il lavoro dei dipendenti dall’ufficio a casa loro, allora lo posso trasferire anche in Cina”. Le ambiguità del telelavoro – al netto dei momenti di emergenza sanitaria come questo, nei quali costituisce un importante strumento di protezione – possono servire da prisma attraverso il quale sbirciare molti altri processi di precarizzazione e digitalizzazione dell’impiego. Trasformazioni che il Covid ha accelerato in modo spesso drammatico, ma che “in forma carsica erano all’opera già prima dell’evento pandemico”, passato il quale si “accentuerà la contrapposizione tra lavoro in remoto e lavoro in presenza”. Questa la tesi degli economisti Supsi Spartaco Greppi e Christian Marazzi, tratta dal breve saggio che hanno appena pubblicato nel volume collettivo ‘In movimento nonostante il lockdown. L’esperienza svizzera del Covid-19’, a cura di Oscar Mazzoleni e Sergio Rossi (Armando Dadò Editore).

Professor Greppi, nel vostro testo il telelavoro è il simbolo di un’economia sempre più virtuale e ‘on demand’ – lungo linee di tendenza già evidenti dagli anni ’90 –, ma è anche la lente con cui osservare vincitori e vinti nel mondo professionale. Con quali risultati?

Notiamo anzitutto molto bene la differenza tra chi può svolgere un lavoro da casa beneficiando comunque di piena tutela contrattuale, di uno stipendio e di condizioni logistiche adeguate, e tutti gli altri. Da una parte, c’è chi è impegnato in mestieri di natura relazionale – dagli infermieri ai fattorini – e quindi deve comunque spostarsi, con i rischi che ciò comporta non solo per la salute. Dall’altra, chi lavora sì da casa, ma nelle nuove forme del lavoro precario: chi ad esempio dipende da lavori a chiamata e dagli incarichi che riceve da remoto, dalle piattaforme nelle quali una traduzione o un lavoro di programmazione sono esposti alla competizione globale tra lavoratori.

Un ‘lavoro alla spina’ in cui ‘il tuo capo è un algoritmo’, per citare i titoli di altre due ricerche recenti. Ma davvero questo è un rischio che si corre anche da noi?

Nelle sue forme più estreme – quelle di piattaforme come Amazon Mechanical Turk, che distribuiscono microattività imponendo a chi vuole svolgerle una sorta di ‘asta digitale’ – quel tipo di lavoro tocca per ora solo poche persone. Ma contribuisce già a precarizzare progressivamente molti settori, in modi diversi: se posso trovare un contabile o un traduttore dall’altra parte del mondo a un costo inferiore, sarò tentato di delocalizzare il lavoro senza neppure bisogno di aprire un ufficio altrove. Se poi è possibile spostare un compito a casa del lavoratore, allora potrò anche spingerlo a diventare indipendente e accollarsi il rischio d’impresa. Tutte tendenze che vediamo già arrivare.

Insieme a quella alla ‘piattaformizzazione’: ovvero al fatto di organizzare il lavoro attorno a grandi piattaforme che creano reti globali con l’ausilio della tecnologia. Sono le stesse delle quali ci serviamo tutti come utenti: Amazon, Teams, Zoom. Ma anche quelle locali, come l’azienda di consegna pasti Divoora, che di recente ha proposto ai suoi fattorini la retribuzione ‘a tassametro’, solo per il tempo della corsa dal cliente.

La piattaformizzazione del lavoro non riguarda solo chi per le piattaforme lavora, ma tutti noi. Certi metodi, ad esempio, di controllo dei tempi produttivi e della performance si stanno già trasferendo anche in ambiti apparentemente più tradizionali. Lo scopo è sempre lo stesso: flessibilizzare il lavoro in funzione della domanda e ridurre così al massimo i costi facendo leva su un mercato del lavoro globale.

Vien da pensare che ormai dovremmo preoccuparci dell’informatico asiatico invece di demonizzare il saldatore comasco. O no?

Chiaramente non tutti i lavori si possono fare da remoto. Ma di certo rischiamo di andare incontro a una forte pressione sul lavoro residente. Un ulteriore incentivo a non subire gli eventi e a ripensare l’economia che vogliamo, per sviluppare qualcosa di più sostenibile puntando ad esempio sulla cura, l’educazione, la cultura, l’ambiente. Per ‘produrre’ soggetti oltre che oggetti. E per uscire così anche da quella ‘guerra tra poveri’ troppo spesso fomentata per motivi strumentali.

Numerosi studi – incluso uno del Politecnico di Zurigo – notano un aumento delle disuguaglianze dall’inizio della pandemia. Chi ne esce perdente?

Sicuramente molti indipendenti, in particolare in settori quali l’arte e la cultura. Poi ci sono i cosiddetti working poor, coloro che lavorano ma non ottengono un salario sufficiente a mantenere sé stessi e la famiglia, e per i quali anche la minima contrazione nei redditi è insostenibile. Infine c’è la nebulosa degli invisibili, gli stessi che a un certo punto si sono materializzati nelle code per i pasti gratuiti, specie nelle città: sans papiers, stranieri che magari non vogliono far capo all’assistenza per non perdere il permesso di soggiorno, precari – dei quali molte donne – inseriti in quei lavori che già nel 1992 il filosofo André Gorz definiva “neoservili”, dalla badante alla prostituta.

L’Apocalisse che molti si aspettavano, però, non è arrivata. In Svizzera il welfare ha tenuto. Eppure voi auspicate una “ridefinizione strategica dello Stato sociale”. Se una cosa non è rotta, perché mai aggiustarla?

Sicuramente le varie forme di welfare sono state applicate con tempestività e flessibilità durante la pandemia, attutendone molto l’impatto a breve termine, ad esempio estendendo agli indipendenti – il 12% circa della forza lavoro svizzera – l’indennità per la perdita di guadagno. Allo stesso tempo, però, lo shock portato dal coronavirus ha rivelato fragilità che prima erano meno visibili e che richiedono spinte nuove, come il problema dei bassi salari e delle economie domestiche che devono sopravvivere con meno di 4mila franchi, tra le più colpite a livello di consumi e indebitamento. Anche in ragione dei cambiamenti accelerati dalla pandemia, soprattutto per loro il lavoro non sarà mai più lo stesso, dunque non potrà esserlo neppure il sistema di welfare.

Come potrebbe cambiare?

Cominciando a prevedere forme di protezione adeguate a un lavoro sempre più ‘aritmico’ e flessibile, spesso composto da nomadi digitali. Prevedendo eventualmente forme di reddito di base, o comunque misure di compensazione che riconoscano l’apporto al benessere collettivo anche di chi oggi svolge attività domestiche o comunque non riconosciute come lavorative. Abbiamo visto con i lockdown il peso di subire ‘intermittenze’ nel proprio reddito: ebbene, questo è un rischio che sempre più persone correranno, anche se e quando ci libereremo dalla pandemia. Occorre ripensare il welfare nella consapevolezza che nessuno è invulnerabile, non solo di fronte al virus.

IL SONDAGGIO

Ai dipendenti Supsi
piace il modello ibrido

Ma cosa succede se il telelavoro è adottato in un’organizzazione solida, dove i lavoratori possono dirsi tutto sommato ‘al sicuro’? Un esempio viene proprio dalla Supsi, ai cui dipendenti il lavoro da casa sembra piacere. Lo conferma uno studio pubblicato su ‘Dati’ – il periodico dell’Ufficio di statistica ticinese – dopo un sondaggio realizzato nell’autunno 2020. La conclusione è netta: “La grandissima maggioranza (96%) dei collaboratori Supsi che hanno partecipato all’indagine desidera svolgere anche in futuro il telelavoro, per lo più in modalità alternata alla presenza in sede”.

Per gli autori Danuscia Tschudi, Nicolas Pons-Vignon ed Emiliano Soldini va però notato che “parallelamente ai vantaggi del telelavoro – miglioramento della conciliazione tra famiglia e lavoro e riduzione dei problemi di traffico nel tragitto quotidiano casa-lavoro – emergono dei rischi da non sottovalutare, ad esempio il sovraccarico, l’isolamento sociale e l’invisibilità, in particolar modo per i neo-arrivati e le donne tradizionalmente associate all’ambito domestico e della cura”.

Un capitolo a parte merita peraltro la questione dell’insegnamento, per il quale la mancanza della presenza fisica pare essersi fatta sentire in modo particolare; sono stati soprattutto i docenti Supsi a dichiarare che da casa potevano svolgere solo parzialmente il loro compito educativo. Maggiori perplessità sull’efficacia del telelavoro arrivano più in generale dai dipendenti over 50.

Dal punto di vista del genere, anche nei periodi di picco pandemico le donne si sono trovate a lavorare da casa più degli uomini (89% contro 80%), mentre la loro aspirazione a effettuare telelavoro anche in futuro appare simile a quella dei colleghi maschi. Ciò non toglie, notano i ricercatori, che “se al di fuori della situazione straordinaria della pandemia il telelavoro dovesse essere maggiormente implementato dalle donne, questo potrebbe rafforzarne l’assegnazione all’ambito domestico, rinvigorendo di fatto le norme tradizionali di genere”.

In ogni caso, la preferenza di molti pare guardare a un sistema ‘ibrido’, alternando casa e campus. D’altro canto, non tutte le attività si prestano al telelavoro: “In certe funzioni sia tecniche sia nella ricerca, andare in sede per avere a disposizione determinati strumenti, materiale e apparecchiature è imprescindibile”. Preoccupa anche l’inaridirsi delle relazioni coi colleghi, che si teme possa ostacolare pure i processi di innovazione (spesso legati a idee nate durante le classiche ‘quattro chiacchiere al caffè’). Da tener d’occhio anche il diluirsi dei confini tra lavoro e vita privata – un lavoratore su due lamenta: “Sono sempre connesso, non riesco a staccare” – e il rischio di sovraccarico: “Diverse ricerche hanno mostrato che il telelavoro comporta la tendenza a lavorare di più che in ufficio”.

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