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Trans e rifugiata, in fuga dalle botte

La storia di Alexandra mostra l’importanza dell’asilo per chi subisce persecuzioni omofobe e transfobiche

Alexandra
(Aardvark Film Emporium)
25 ottobre 2021
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«Continuano a guardarti per vedere cos’hai in mezzo alle gambe». Il disagio sotto gli sguardi degli altri è uno dei temi ricorrenti quando si parla con Alexandra, transgender coprotagonista del documentario ‘Sous la peau’ proiettato al Lux di Massagno (lo si può vedere anche oggi alle 18.30). Scesa in Ticino per raccontare il destino della sua transizione di genere, ci racconta una storia di fuga e di difesa dei diritti umani che nel film resta fuori campo: di origine panamense, Alexandra è dovuta fuggire dalle vessazioni del suo Paese e ora è copresidente di Asile Lgbt, associazione impegnata nell’accoglienza dei rifugiati omosessuali, bisessuali, lesbiche e transgender. E anche ora che è arrivata alla fine del suo percorso di transizione – «è stato come se mi fossi tolta degli occhiali da sole che ero costretta a portare dalla nascita», spiega nel film – si porta addosso la violenza e le incomprensioni di una vita.

Attiva anche come assistente sociale in formazione a Ginevra, Alexandra ha ottenuto un permesso di rifugiata perché ha potuto documentare le violenze subite a Panama: «Ma questa è l’eccezione, non la regola. Io ero già attiva per i diritti delle persone trans, dunque ho fatto attenzione a portare con me tutte le denunce e le prove di quanto vissuto, e quando sono arrivata in Svizzera – con in tasca poche centinaia di franchi – ho trovato subito il sostegno giuridico dell’associazione 360», che sempre a Ginevra lotta contro le discriminazioni e la transfobia. «Ma nella stragrande maggioranza dei casi è difficile per dei rifugiati Lgbt dimostrare l’effettiva pericolosità della situazione in patria. Né ha molto senso la pretesa, da parte delle autorità, di raccogliere e verificare prove presso quegli stessi Stati che di quei pericoli sono responsabili. È come chiedere al gatto se ha mangiato il topo».

A Panama Alexandra si è vista sbarrare in faccia i cancelli della sua scuola, «ho dovuto esercitare nel campo del sesso perché non mi veniva dato alcun lavoro, sono stata arrestata diverse volte dalla polizia e messa in carcere con decine di uomini, ho subito violenze ed estorsioni». Come se non bastasse, le violenze continuavano in famiglia: «Il mio patrigno ha perfino cercato di uccidermi con un machete».

La Svizzera le ha offerto un rifugio e la possibilità di vivere la sua vita in sicurezza, anche se la comprensione della realtà trans resta limitata anche da noi: «Difficile trovarsi confinati in centri di rifugiati, con tante persone da società molto tradizionaliste e spesso omofobe e transfobiche, senza correre rischi». Nel corso della sua attività di sostegno ai rifugiati, Alexandra ha incontrato molti casi di trans che hanno subito insulti, botte e molestie sessuali anche in Svizzera. Difficile è anche «ricevere le giuste cure mediche, specie se si stanno prendendo ormoni», e poi «sentirsi rispettati da agenti di sicurezza e funzionari che quando parlano fra di loro o ti perquisiscono si fanno l’occhiolino e si danno di gomito: ‘Hai visto? È un maschio!’ ‘No, è una donna!’, e giù risatine. A chi non le vive queste cose possono sembrare secondarie, ma per noi è così tutti i giorni, e tutti i giorni, anche solo per strada o a uno sportello pubblico, ci sentiamo spossessati del nostro corpo e del nostro diritto a esistere così come siamo». La riassegnazione chirurgica del genere aiuta a sentirsi più a proprio agio, certo, «però resta quell’impressione di essere sempre osservata per capire ‘cosa c’è lì sotto’. Quegli sguardi, quei commenti, non si risolvono neanche con la chirurgia».

LA GIURISTA

‘Applicare la Convenzione di Istanbul’

«In Ticino, come nel resto della Svizzera, l’accoglienza delle persone transgender si scontra ancora con una scarsa conoscenza e dunque con poca sensibilità verso il fenomeno. Nei centri d’accoglienza, come in altri luoghi di soggiorno pubblico e nelle carceri, non ci sono spazi né procedure dedicati ai transgender. Col risultato che questi devono inevitabilmente patire una serie di problemi anche nel processo d’integrazione». A parlare è Gabriela Giuria Tasville, direttrice della Fondazione Azioni Posti liberi a difesa dei richiedenti asilo.

La giurista, però, invita a considerare anche i problemi a monte, ovvero le condizioni quadro che rendono difficile ottenere un permesso in ragione delle discriminazioni di genere, omofobia e transfobia incluse. A maggio, una sentenza senza precedenti del Tribunale amministrativo federale ha accolto il ricorso di una persona trans delle Mauritius: potrà restare in Svizzera, date le ingiustizie subite in patria e l’impossibilità di accedere là a terapie per la riassegnazione di genere. Tuttavia, prosegue Giuria, «resta molto da fare per adeguarsi alla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere: un accordo che troppo spesso viene trattato alla stregua di semplici linee guida e letto solo alla luce della distinzione binaria uomo/donna. Anche a favore della diversità sessuale in senso più ampio andrebbero invece interpretati, tra gli altri, gli articoli 60 e 61», quelli relativi proprio all’asilo e al non-respingimento. Vi si chiede che le violenze di genere vengano considerate dagli Stati firmatari dell’Accordo, tra i quali la Svizzera, “come una forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1 sezione A numero 2 della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951”.


(Aardvark Film Emporium)

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