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‘Bambini e donne afghane pagano il prezzo più alto’

Intervista alla portavoce Unicef in Afghanistan in occasione dell’assemblea dei delegati che si tiene oggi e domani in Ticino

(UN)
23 settembre 2021
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«Il direttore dell’ospedale pediatrico Atatürk, a Kabul, mi ha detto che sta finendo la nafta. Questo significa che non possono più far funzionare gli incubatori, che i neonati stanno morendo». Per ‘vedere’ al volo cosa sta accadendo ai bambini afghani la cosa migliore è parlare con Sam Mort, responsabile della comunicazione Unicef in loco. L’abbiamo intervistata in occasione dell’assemblea dei delegati svizzeri, che si terrà domani e dopodomani ad Ascona e in cima all’agenda avrà anche la nuova crisi umanitaria.

Mentre tutto il mondo parla dei cambiamenti geopolitici dovuti al ritorno dei Talebani, riesce difficile farsi un’idea precisa di cosa stia capitando alle persone comuni, a una popolazione intrappolata tra fanatismo e guerra civile. Lei cosa vede dal suo osservatorio?

Vedo una crisi umanitaria nella quale i più colpiti sono donne e bambini. Vedo un sistema sanitario al collasso, la mancanza di cibo e medicine. Vedo dieci milioni di bambini che hanno bisogno di soccorso immediato. Non penso solo ai 550 uccisi e ai 1’400 feriti durante i combattimenti (e la stima è al ribasso). Il Paese è ancora alle prese con la pandemia da Covid-19, ma anche con estesi focolai di morbillo: sono 56mila solo i casi confermati. Poi c’è la diarrea, che uccide soprattutto chi ha meno di cinque anni. Le migrazioni interne – mezzo milione di sfollati solo durante gli ultimi scontri – accelerano la diffusione di malattie altrimenti prevenibili. A debilitare la popolazione ci si mette anche la malnutrizione, con una stagione estremamente secca che ha causato una grave carestia. Intanto l’inverno si avvicina, e molti non hanno rifugio.

I bambini e le donne sono i più colpiti: in che senso?

Pensi al numero crescente di bambini non accompagnati che vagano per il Paese, diventando facile preda di sfruttamento, abusi sessuali e reclutamento nelle bande armate. C’è anche la questione sanitaria, e poi quella educativa: negli ultimi vent’anni siamo riusciti a passare da un milione di allievi nelle scuole – 90% maschi – a dieci milioni con un 40% costituito da ragazze. Ora le scuole secondarie stanno riaprendo solo per insegnanti e allievi maschi, tagliando fuori un milione di studentesse. Rischiamo di veder bruciare tutti i progressi fatti finora, proprio adesso che i giovani più istruiti fuggono e abbiamo bisogno di formare medici, ingegneri, professionisti per la ricostruzione.

L’Occidente teme che i soldi di eventuali aiuti finiscano nelle mani dei Talebani invece di aiutare le persone in difficoltà. C’è una soluzione?

Capisco benissimo questi timori che interessano tanto i privati cittadini quanto i governi. Ma gli afghani hanno bisogno di aiuto immediato: in quelle che una volta erano le strade più trafficate di Kabul ora vedo gente che si accampa per vendere tutto quello che ha in casa – frigoriferi, lampadari… – pur di sopravvivere. Il sistema bancario vacilla e chi li ha può ritirare al massimo 200 dollari. Una soluzione molto efficace per aiutarli senza passare dai Talebani c’è, la stessa che abbiamo sperimentato con successo in Yemen: inviare fondi direttamente alle organizzazioni non governative, al network delle Nazioni Unite o di altre organizzazioni degne di fiducia.

Cosa possono fare gli svizzeri e la sede locale di Unicef?

Anzitutto fare in modo che di Afghanistan si continui a parlare, che resti negli occhi e nelle orecchie dell’opinione pubblica e dell’intera comunità mondiale. Occorre fare pressione presso i leader nazionali e globali, a Berna e a Ginevra, in modo che i fondi continuino a partire e ciascuno capisca che siamo di fronte a una crisi umanitaria, non politica. Occorre anche comprendere che i rifugiati afghani non sono arrivati in Occidente per capriccio: fuggono dalla guerra, dalla persecuzione, dalla miseria, da uno Stato sull’orlo del fallimento. Non hanno scelta. Ecco perché – e qui ribadisco quanto detto dal segretario generale dell’Onu – è cruciale non rimandarli indietro e aiutarli a ricostruire la loro vita.

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