L’INTERVISTA

La ‘guerra’ di Pietro: Martinelli si racconta

L’ex Consigliere di Stato della ‘sinistra sinistra’ presenta il suo libro-intervista

3 settembre 2021
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“Ha convinzioni, e forti. Ma non ha la verità in tasca”. Roberto Antonini introduce così la figura di Pietro Martinelli, classe 1934, col quale ha appena pubblicato per Casagrande il libro-intervista ‘Le battaglie di una vita’ (lo presenteranno domani a ChiassoLetteraria: l’appuntamento è alle 17 al Cinema Teatro). Un dialogo intenso, affascinante, nel quale l’ex Consigliere di Stato della ‘sinistra sinistra’ racconta molto di sé: la giovinezza un po’ scapestrata, con un rendimento scolastico non sempre eccezionale e una passionaccia per il poker; la maturità professionale e politica, in anni nei quali essere un ingegnere di sinistra significava non trovare lavoro; gli scontri col Partito socialista e le intese con politici molto diversi da lui come Marina Masoni; infine l’amore per la moglie Nora, innervato di militanza e tenerezza.

Come molti esponenti della sinistra, lei viene da una famiglia borghese e conservatrice, che nel libro definisce perfino “vittoriana”. Una rottura inevitabile?

Direi piuttosto una famiglia cattolica che aspirava alla tranquillità borghese, conservatrice per legami familiari, ma con aperture sociali. A portarmi a sinistra sono stati alcuni amici – tra loro molti architetti – alla fine degli studi a Zurigo. Poi a rendere più radicali gli obiettivi è intervenuto il ’68, anche se è arrivato quando avevo già 34 anni, una famiglia, un lavoro e la tessera del Partito socialista. Il ’68 ha messo definitivamente in crisi il sistema patriarcale e maschilista e la repressione sessuale ereditati dall’800. A cominciare da quegli anni mi fu prezioso il contributo di mia moglie Nora, che aveva “lo stesso sguardo sul mondo” e mi fece capire quali erano le sfide pedagogiche legate all’antiautoritarismo e le aspirazioni del femminismo.

Il ’68 fu anche l’anno della repressione sovietica a Praga. Come lo viveste?

La repressione della Primavera di Praga, durata in realtà sette mesi e sostenuta apertamente dal Partito comunista italiano di Longo e Berlinguer, ci apparve come la drammatica conferma della impossibilità di una evoluzione democratica dei regimi imposti dall’Urss nell’Europa dell’Est e dello stesso regime sovietico. Fu una dura lezione: la sera del 20 agosto con Nora guardammo sgomenti i carri armati sovietici invadere Praga.

Lei precisa: “Non sono mai stato comunista”. Eppure contribuì a ‘spaccare’ a sinistra il Partito socialista ticinese (Pst), fondando nel 1969 il Partito socialista autonomo (Psa). La divisione durerà quasi trent’anni. Un vecchio vizio della sinistra?

All’epoca – siamo nella metà degli anni ’60 – il Pst ci appariva ossificato nella cosiddetta ‘alleanza di sinistra’ con i liberali, durata 20 anni dal 1947 al ’67. Un’alleanza che ebbe dei meriti, ad esempio la legge tributaria del ’56 e la difesa della laicità della scuola, ma che favorì anche un appiattimento del dibattito politico, il clientelismo, le nomine in funzione dell’appartenenza politica e una modalità discutibile di finanziamento dei partiti. Tutte cose che nessuno metteva in discussione. Anzi, quando negli anni ’70 osammo criticare in Gran Consiglio una donazione in denaro fatta al Pst nello studio del Consigliere di Stato dopo un appalto – dopo, per cui non c’era corruzione – ci venne risposto che chi non sapeva che i Partiti si finanziavano anche così “era probabilmente caduto dal seggiolone da piccolo”. Ci fu chi ritenne questa risposta geniale.

Voi del Psa eravate caduti dal seggiolone?

Evidentemente.

La concomitante esperienza del Movimento di opposizione politica, durato il tempo d’un sospiro sempre attorno al ’68, vide incrociarsi persone molto diverse: socialisti come lei e Werner Carobbio, Martino Rossi – che avrebbe portato in Ticino la Lega marxista rivoluzionaria –, ma anche liberali quali Dick Marty e Paolo Bernasconi, i Ppd Flavio Cotti e Fulvio Caccia, intellettuali di area cattolica come Tita Carloni e Giovanni Orelli. Faranno strada.

Quella generazione ebbe in alcuni casi l’opportunità di migliorare almeno in parte il proprio partito dall’interno. Per quanto riguarda i cattolici, il 1963 era stato anche l’anno della Pacem in terris di Giovanni XXIII e nel 1962-’65 si era svolto il Concilio Vaticano II, che aveva favorito un avvicinamento tra cattolicesimo sociale e militanti di sinistra. Si respirava un’aria nuova.

Veniamo al periodico Politica Nuova, che creaste già nel ’65, e alla cacciata dal Pst.

All’inizio Pn era una rivista critica che dialogava col Partito. Le polemiche crebbero di intensità quando nel ’67 la maggioranza della Direzione del Partito – 7 su 11 – venne affidata a chi aveva perso il Congresso del ’66, Congresso che aveva deciso la linea politica dopo un confronto nella base vissuto intensamente. Quella fu una mossa gravemente antidemocratica. Le conseguenze nel giro di due anni furono tensioni che portarono alla mia espulsione dal Pst assieme agli altri tre membri di minoranza della Direzione: Werner Carobbio, Elio Galli e Basilio Scacchi. Con Galli fummo estromessi dal gruppo Pst in Gran Consiglio e dalle commissioni. Venivamo guardati come rottami destinati al fallimento politico. La prima rivincita arrivò nel 1971, quando il Psa ottenne il 7% dei voti, 6 deputati e il diritto di avere un posto in tutte le commissioni.

Fu forse quella della Gestione a pronunciare contro di lei il Berufsverbot, il bando dai concorsi pubblici.

Quando chiesi spiegazioni al Consigliere di Stato liberale Argante Righetti per un lavoro importante guadagnato sul campo e che mi era stato inspiegabilmente tolto, mi disse chiaro e tondo: “Una persona che assume le sue posizioni politiche deve aspettarsi colpi duri”. Bene, finalmente avevo la certezza di quello che stava capitando, già preannunciato dai durissimi attacchi sul ‘Dovere’ a me, ma anche agli architetti Tita Carloni, Luigi Snozzi e Marco Krähenbühl. Lo ringraziai per la sua chiarezza.

Dovette andarsene perfino in Guinea a ricostruire una fabbrica di birra. Intanto in Ticino come andava?

Mantenni sempre il posto in Gran Consiglio anche durante la fase di lavoro fuori dal Ticino, pur facendo acrobazie. Progressivamente, anche grazie alla presenza nelle Commissioni, l’opposizione frontale iniziale imboccò la strada di proposte di riforme sempre più realiste relative alla scuola, alla sanità, all’uso del territorio, alla fiscalità, alla socialità, al funzionamento dell’amministrazione. Soprattutto nel partito liberale alcuni incominciavano ad apprezzare il nostro lavoro.

Nel 1975 fu eletto in Consiglio nazionale, ma lasciò il posto a Carobbio che da insegnante non poteva sedere in Gran Consiglio.

La ritengo la nostra carta vincente, la chiave di volta di un sodalizio politico e umano di ferro. Werner è stato un gran lavoratore, e il posto a Berna lo ha guadagnato sul campo.

Dai banchi del Gran Consiglio lei si batté per la riforma dell’amministrazione pubblica.

È un compito che mi ha visto impegnato anche in governo, e che sono riuscito a completare solo in parte. L’idea – lo capì bene una liberista come Marina Masoni – era quella di avere un’amministrazione più funzionale ed efficiente, perché solo così il settore pubblico può evitare di lasciare tutto al mercato e all’iniziativa privata.

Poi arrivò il terremoto elettorale del 1987, quando scalzò il Ppd Fulvio Caccia dalla compagine di governo. Cosa successe?

Il confronto per un posto in governo era tra Pst e Psa, ma qualcuno volle condizionarlo spostando voti preferenziali e schede. Purtroppo a farne le spese fu un Consigliere di Stato competente e di idee progressiste come Fulvio Caccia.

Pensavano che lei fosse un comunista, si è rivelato semmai un ‘tecnico’. Alcuni la definivano “l’uomo giusto nel partito sbagliato”.

Quando arrivai in governo mi accorsi che i dipendenti mi chiamavano ‘direttore’, non ‘consigliere’: dunque ero lì per dirigere, per ottenere dei risultati nell’interesse immediato della collettività, non per fare proclami politici. D’altronde un po’ ero abituato, come libero professionista e poi come impresario, a privilegiare i risultati concreti: qualcuno, scherzando, disse che l’unico imprenditore in governo era proprio il consigliere più di sinistra.

Un piglio ‘aziendalista’ che ha portato prima ai dipartimenti Giustizia e Istituzioni, poi alla Socialità.

Dovetti chinarmi sul diritto, che conoscevo poco, e mi impegnai per migliorare l’efficienza nella giustizia cantonale, costruendo dei parametri per “misurare” la produttività delle Preture. Alla Socialità arrivai nel 1991, negli anni del trionfo del liberismo e della crisi dello Stato sociale. Puntai su riforme che affrontavano temi ancora di attualità come il calo delle nascite e l’invecchiamento della popolazione. Vennero così approvati gli assegni di prima infanzia e familiari, la legge sugli aiuti domiciliari e la legge sull’armonizzazione razionale delle prestazioni sociali.

Quando arrivò la liberista Masoni, dopo il gelo iniziale nacque un rapporto proficuo. Strana coppia, no?

Io ne combattevo le posizioni politiche, ma ho sempre apprezzato la sua propensione al dialogo. In un governo di coalizione, poter trovare un’intesa tra ‘estremi’ significa spesso riuscire a coinvolgere anche gli altri colleghi.

Sgravi fiscali in cambio di sussidi?

Assolutamente no. L’occasione di offrire alla collega i mezzi finanziari per uno sgravio fiscale mi venne offerta dall’entrata in vigore delle nuova legge federale sull’assicurazione malattia (la LAMal). Grazie a quella legge il Cantone, che aveva già una legge simile, avrebbe beneficiato di una pioggia di milioni – tra 60 e 80 – per sussidiare i premi degli assicurati con reddito modesto che prima finanziava con mezzi propri. Parte dei milioni risparmiati dal Cantone sarebbero potuti servire per diminuire le imposte del ceto medio che non beneficiava dei sussidi e che si sarebbe visto confrontato con premi dell’assicurazione malattia crescenti. Evidentemente lo sgravio doveva essere decrescente all’aumentare del reddito, fino ad annullarsi alla soglia di circa 80mila franchi. Quindi uno sgravio “sociale”, a favore di chi non avrebbe beneficiato di sussidi pur non essendo ricco.

Nel frattempo nasceva la Lega dei Ticinesi. Vi aspettavate un successo così clamoroso?

Nel governo pensavamo che sarebbe finita come altri movimenti simili del passato: quello di Guglielmo Giannini in Italia, di Pierre Poujade in Francia. Non abbiamo considerato due cose: le capacità istrioniche di Giuliano Bignasca, un creativo indifferente alla morale che avevo avuto per un anno come allievo – non motivato – alla Scuola tecnica cantonale; e la globalizzazione, che stava creando un clima di precarietà, offrendo argomenti al populismo e alla ricerca di capri espiatori.

C’è chi riconosce alla Lega il merito di avere scardinato certe spartizioni di potere.

Nel senso che ora partecipa anch’essa alla spartizione, mentre non vedo proposte politiche di riforme delle quali pur c’è bisogno. Inoltre ha soffiato su un sentimento di italofobia che non può che danneggiarci.

Ha visto il Ticino del boom, “economia del contrabbando, del segreto bancario, dell’evasione fiscale e degli scandali edilizi” (Angelo Rossi). Oggi è cambiato?

Qualcosa sì, ma neanche troppo. Da Consigliere di Stato trovavo ancora chi si illudeva di fare del Ticino una grande Montecarlo, di sfruttare rendite di posizione come si faceva negli anni ’60. Ancora oggi assistiamo a speculazioni edilizie e a un’economia che combina bassi investimenti con lo sfruttamento dei frontalieri. Il tutto in una terra che invecchia e si svuota.

Come se ne esce?

Una risorsa è data dall’Università – voluta e ottenuta dal Consigliere di Stato Plr Giuseppe Buffi –, dalla ricerca, dal settore sanitario e da qualche attività qualificata che pure esiste. Questi punti positivi dovrebbero essere accompagnati da un rinnovato spirito di accoglienza, che invece è andato in parte perduto.

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