LGBTQ+

La non-binarietà spiegata da chi la vive

Sul fatto di non identificarsi come 'maschio' o 'femmina' circolano molta confusione e parecchi stereotipi. Una testimonianza per capirci di più

(Depositphotos)
23 giugno 2021
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Alias è ticinese e studia all’Università di Losanna, è gentile e un po’ timido. Alias non è un alias, uno pseudonimo, ma proprio «il nome che ho scelto per quando cambierò quello che ho adesso», di ragazza. Alias è una persona non-binaria: non si identifica completamente né nel genere femminile – quello attualmente corrispondente al suo corpo – né in quello maschile. L’abbiamo incontrato per comprendere una situazione che non corrisponde alle dicotomie maschio/femmina e gay/etero, e neppure alla situazione di persone transgender che vedono nel genere ‘opposto’ a quello di nascita il loro punto di arrivo.

Alias, come spiegheresti la non-binarietà?

La non-binarietà ha molte sfumature. Ad accomunarci è il fatto di non identificarci in modo “o bianco o nero” con un genere, fosse anche quello opposto al proprio sesso biologico. Prova a fare un esperimento: immagina di trovarti in un corpo del sesso opposto al tuo; a molti questa prospettiva crea già un certo disagio. Ecco, a chi è non-binario succede con entrambi i sessi. Per questo è più facile spiegare ciò che non siamo più che ciò che siamo.

Cosa da non confondere con l’orientamento sessuale.

L’identità di genere riguarda se stessi, è qualcosa di diverso dall’attrazione sessuale, che può andare verso ciò che coincide col proprio sesso biologico o meno, in una miriade di sfumature intermedie.

Perché ti riferisci a te stesso al maschile?

L’italiano è una lingua molto ‘gendrée’. Siccome sto intraprendendo una transizione parziale – tramite ormoni – per avere tratti più maschili, preferisco questo genere, ma chiaramente si tratta di approssimazioni. Peraltro ci sono persone non-binarie che non fanno alcuna transizione, altri invece seguono il percorso di molte persone trans binarie.

Come hai fatto a ‘dare un nome’ alla tua identità?

Non è stato facile, fino a un anno fa io stesso ignoravo il fatto che la mia situazione si potesse definire non-binarietà. Fin dalle scuole medie ho avuto grandi difficoltà nell’identificarmi con un genere e nel relazionarmi con gli altri, vivendo anche episodi di bullismo, dovuti probabilmente al mio apparire a qualcuno ‘una ragazza strana’. Ma per anni ho rimosso il problema: mi ritiravo nella solitudine, ho sempre avuto pochissimi amici. Mi rifugiavo in un mondo di fantasia, leggendo e scrivendo. Proprio scrivendo è nato Alias, un personaggio molto androgino che solo in seguito ho capito essere una sorta di alter ego.

La questione, però, non è letteraria. Cosa rispondi a chi sostiene che la non-binarietà è ‘una moda’?

Di sicuro non lo è il disagio che ho vissuto per anni. Così come non lo è il senso di confusione man mano che ho smesso di ignorare il problema, di dirmi ‘passerà’. E di certo non hanno aiutato altre persone come me le terapie di conversione – purtroppo non ancora completamente illegali ovunque – che miravano a convincerle che non è ‘una cosa reale’, ma una specie di proiezione mentale da correggere. Reale, invece, è stato il progressivo senso di liberazione quando mi sono reso conto della situazione. Solo da allora ho cominciato a stare veramente bene.

Come ci sei arrivato?

Mi sono avvicinato alla comunità Lgbtq+ all’università, e lì ho scoperto la realtà non-binaria. Mi ha aiutato molto il fatto di essere in un ambiente accademico, privilegiato e sicuro: quando ho chiesto ai miei compagni di rivolgersi a me al maschile e col nuovo nome non è stato un problema. Però è ancora tutto nuovo, devo sperimentare un po’ alla volta, e so che fuori di qui è più difficile, come per tutte le persone trans: si è notoriamente discriminati sul posto di lavoro.

Poi bisogna spiegarlo alla famiglia.

I miei genitori mi hanno subito sostenuto, e così i miei amici più cari, quindi da questo punto di vista sono stato fortunato: non mi sono scontrato con quell’aggressività con la quale qualcuno si illude di ‘curare’ un figlio non-binario, senza capire che la diversità va accettata, non corretta, e che con certi comportamenti non si fa altro che allontanare una persona che pur si ama.

La non-binarietà causa anche disforia di genere, ovvero il fatto di rifiutare aspetti del proprio corpo?

Nel mio caso sicuramente sì: quando mi guardo allo specchio, potrei essere io o qualcun altro. Ma capitano anche ‘attacchi di disforia’, episodi di intensa ansia e sofferenza quando mi ritrovo fortemente riconosciuto e identificato come donna. All’inizio mi chiedevo ‘ma allora sono un uomo’? Ma non era neanche così. Queste sono tutte cose che per anni non sono riuscito a identificare, in una sorta di dissociazione mentale. Per questo è utile un percorso psicoterapeutico, comunque obbligatorio per poter accedere alla terapia ormonale e vedersela rimborsata dalla cassa malati.

Il problema è anche burocratico?

Da un punto di vista amministrativo, oltre che politico, la non-binarietà di fatto non è riconosciuta: basti pensare all’obbligo di dichiarare il genere maschile o femminile sui moduli. Ma questo – e tutto il casino legale che ci va dietro – è solo un sintomo di una società che fatica comprendere la questione.

C’è chi ne fa anche una questione linguistica. Per questo ad esempio si propone l’uso dello ‘schwa’, una vocale intermedia tra ‘a’ e ‘o’ che superi l’eccessiva distinzione di genere
nella lingua.

Il problema è complesso e non è solo una questione di lana caprina, perché in effetti la lingua influenza il pensiero. Io mi trovo più a mio agio parlando lingue come l’inglese, dove ci sono il neutro e il cosiddetto ‘singular they’ per superare le determinazioni di genere. Ma proposte come lo schwa servono soprattutto per creare consapevolezza: se poi la lingua evolverà lo farà in modo organico all’evoluzione della mentalità condivisa, dell’accettazione della diversità.

Quale che sia la lingua, trovi che di non-binarietà si parli troppo poco?

Sì, soprattutto durante l’adolescenza, nelle scuole. L’educazione sessuale è ancora fortemente eterocentrica e dell’identità di genere non si parla nemmeno. Se ci ho messo così tanto a conoscermi meglio è anche perché non me ne sono stati dati gli strumenti. Certo, oggi c’è internet: ma non si può pensare che basti. Serve una rete di informazione e supporto ben più ampia e personale. Se avessi capito di essere non-binario da adolescente probabilmente avrei avuto paura, ma se qualcuno mi avesse informato e sostenuto avrei forse evitato anche tante sofferenze. Perché è difficile relazionarsi con gli altri quando non si è ‘in chiaro’ con se stessi.

Dal punto di vista personale, dove ti vedi tra una decina d’anni?

Questa è un’altra cosa difficile da spiegare, anche a tante donne comprensive nei confronti delle mie scelte. Personalmente mi vedo circondato da persone alle quali voglio bene, magari anche affiancato da una compagna, ma di certo non vedo come prioritarie la ‘famiglia tradizionale’ e la maternità.

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