Ticino

In Marocco perseguitano i gay, ma non per la Sem

La Segreteria della migrazione svizzera vuole rimandare in patria un ragazzo che per la sua omosessualità rischia le botte e la galera.

(Keystone)
19 giugno 2021
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«Zamel. In Marocco ti chiamano così se si accorgono che sei omosessuale». Zamel. Frocio, insomma. Kamal – lo chiameremo così per evitargli altri guai – se l’è sentito sibilare più di una volta dai suoi concittadini. Si è anche sentito minacciare e intimidire in ogni modo. Una notte, nel parcheggio di una discoteca marocchina, lo hanno pestato a sangue. «Erano persone che non conoscevo. Mi avevano visto ballare col mio compagno, hanno intuito qualcosa. Hanno visto che ci baciavamo nel parcheggio, ci hanno seguito. Quando il mio compagno ha preso un taxi e sono rimasto solo, qualcuno mi ha insultato: ‘Zamel! Gente come te non dovrebbe esistere’, mi urlava da dietro mentre scappavo. Ho cercato di rientrare nell’hotel che ospita la discoteca, ma non ho fatto in tempo: mi ha aggredito alla schiena, mi ha colpito in testa e sono svenuto per diversi minuti», racconta con la voce bassa di chi è abituato a nascondersi e a guardarsi dietro le spalle. Sul suo smartphone scorrono le foto del cranio insanguinato: «Per fortuna qualcuno mi ha visto e ha chiamato un’ambulanza. Avrei potuto chiedere le immagini delle telecamere di sorveglianza e fare identificare l’aggressore. Ma avrebbero visto che mi ero appartato col mio compagno, e a quel punto avrebbero arrestato me».

È in quel momento, una volta uscito dall’ospedale, che il ragazzo poco più che ventenne ha deciso di andarsene da un Paese nel quale essere omosessuali è ancora un reato. Ora è in Svizzera da qualche mese, ma la Segreteria di Stato della migrazione (Sem) ha deciso che non può restare: in Marocco aveva un lavoro, non rischiava di morire né di fame né di guerra, dunque può tornare a viverci. Purché stia attento a tenere nascosta la sua omosessualità, evidentemente.

Dove l‘omosessualità è un reato

Il problema è noto. Nel decidere sull’accoglienza, la Sem tende a non considerare l’omofobia tra le violazioni dei diritti umani, nonostante in Marocco l’articolo 489 del codice penale paia spuntato da un’altra epoca: “Chiunque commetta un atto impudico o contro natura con un individuo del suo stesso sesso” è punibile con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. Non è solo un rischio teorico: «Due miei colleghi vivevano una relazione molto discreta, sono sempre stati attentissimi a non farsi notare, come me d’altronde. Eppure sono stati scoperti per via di qualche messaggino affettuoso sul cellulare. Sono stati condannati a un anno e mezzo di carcere».

Una situazione insopportabile per Kamal: «Non ne potevo più di indossare una maschera, di non essere me stesso. È estremamente stressante: c’è chi impazzisce, chi si ammazza». Lo ribadisce con un tono di gentile determinazione: «Sì, è vero, avevo un lavoro, con la mia famiglia andavo d’accordo, anche se solo mia madre sapeva la verità (Kamal ha quattro fratelli e sorelle, suo padre è estremamente religioso, ndr). Ma non si può vivere così, nella clandestinità. Non si può essere costretti a non lasciarsi mai andare, a dover vivere nella paura per sé e per chi si ama». Ancora: «È come scalare una montagna portando un’altra montagna sulla schiena. Amo il Marocco, dopo tutto è il posto in cui sono cresciuto: ma se tornassi ora, le domande sulla mia fuga si moltiplicherebbero e rischierei ancora di più».

Per questo ora Kamal ha presentato un ricorso al Tribunale amministrativo federale (Taf). Se ne è fatta garante l’associazione Imbarco immediato, che difende i diritti della comunità Lgbtq+, col sostegno e la collaborazione di ZonaProtetta, Amnesty e Fondazione Diritti Umani. Dopo aver trascorso nove mesi lungo la rotta balcanica prima di arrivare in Svizzera – «dove sapevo che c’è attenzione ai diritti dei gay» – il giovane attende un verdetto in un centro per rifugiati: era qui in Ticino fino a ieri, quando è stato spostato in Svizzera tedesca. Non gli viene lasciato molto da fare, non può neppure frequentare corsi di lingua o di qualche altro tipo: «Leggo, guardo la televisione, aiuto in cucina o con le pulizie. Anche qui ci sono marocchini, algerini, tunisini. Anche qui continuo a nascondermi, a fingere gesti virili e ad aspettare una decisione. Vorrei lavorare, magari nella Svizzera francofona: parlo inglese, francese e un po’ di tedesco. Poi mi piacerebbe continuare l’università: in Marocco, dopo la maturità, ho fatto due anni di Economia e Management». Di certo non vuole «tornare a far finta di essere felice all’inferno».

‘Un rifiuto inaccettabile’

«È inaccettabile che si chieda a un ragazzo di 23 anni di tornare a vivere una vita in incognito, costantemente minacciata dalla violenza e dalla delazione. Per questo sosteniamo il ricorso al Tribunale amministrativo federale. Stiamo mobilitando altre associazioni e la società civile in generale». A stigmatizzare la decisione della Sem sul caso di Kamal è Federico De Angelis, uno dei coordinatori di Imbarco immediato, che invita a ripensare i diritti umani per tutelare le persone Lgbtq+: «Finora la loro persecuzione non è automaticamente compresa tra le ragioni per il diritto d’asilo. Diritto che invece protegge ad esempio chi è perseguitato a causa della sua religione. Come se identità e orientamento sessuale si potessero tenere per sé, qualcosa di puramente interiore che non è un problema nascondere». Serve un cambio di mentalità, insomma, del quale d’altronde si vedono già segnali incoraggianti: «È vero che per i diritti Lgbtq+ la Svizzera non è in cima alla classifica europea», collocandosi anzi a metà strada sotto ai Paesi più a nord, ma anche al Portogallo; «tuttavia – aggiunge De Angelis – dal punto di vista delle leggi abbiamo visto un importante passo avanti a febbraio dell’anno scorso, quando la popolazione ha accettato di equiparare a livello penale l’omofobia alle discriminazioni e aggressioni su basi razziali e religiose. Noi ci auguriamo che ora lo stesso principio sia tenuto in considerazione dal Taf anche nei casi di richiesta d’asilo, come quello di Kamal».

Una sentenza storica si era avuta a inizio maggio, quando lo stesso tribunale aveva bloccato il rimpatrio alle Isole Mauritius di una donna transgender. In quel caso, alle considerazioni sulla discriminazione si erano aggiunte quelle circa l’impossibilità di proseguire in patria le terapie per il cambio di sesso. Nel novembre dell’anno scorso, invece, era stata la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) a sanzionare la Svizzera per il rimpatrio di un gambiano gay. Mentre le corti federali avevano ritenuto che la rete famigliare potesse proteggere l’uomo, la Cedu ha ravvisato una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La giurisprudenza in materia rimane però ancora limitata.

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