Ticino

Gli infermieri vogliono curare e non fare i burocrati

Il personale sociosanitario scende in piazza e rivendica condizioni di lavoro migliori per evitare l’abbandono della professione

TI-PRESS
27 ottobre 2020
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Un'intera settimana nazionale di mobilitazione del personale sociosanitario, quella appena iniziata e che sfocerà nella manifestazione nazionale a Berna in Piazza federale sabato, rispettando ovviamente le norme anti-Covid.

«25 minuti per l’igiene completa del paziente, 15 minuti per una medicazione semplice, 5 minuti per la preparazione dei medicamenti… L’antico lavoro di “cura” è diventata una nuova forma d'incarico proiettato alla performance, al rendimento e alla velocità», denuncia Mattia Bosco, segretario cantonale dei Sindacati indipendenti ticinesi – Sit, durante una conferenza stampa convocata a Bellinzona. L’empatia e il sostegno emotivo vengono spesso messe in secondo grado di priorità: «Il personale del settore sociosanitario pretende più tempo per il paziente e meno per la burocrazia», prosegue Bosco che trova anche di fondamentale importanza la possibilità di un pensionamento anticipato. Questo in un’ottica di un miglioramento delle condizioni lavorative di un settore che rientra nei rami professionali che richiedono un intenso sforzo fisico e psichico.

Mancano infermieri

Servono 65 mila infermieri in più entro il 2030. Sono i dati scaturiti da un rapporto della Conferenza svizzera dei direttori cantonali della sanità, citati da Gianni Guidicelli, vicesegretario cantonale del sindacato Ocst. Secondo il documento, il fabbisogno dell’intero settore sociale supera i centomila posti di lavoro. Importante dunque investire su un’attività che per sopperire all’assenza di professionisti sul territorio deve in gran parte far capo a lavoratori esteri. «Nei cantoni di confine si percepisce meno la mancanza di personale grazie alla presenza di frontalieri, ma le zone più centrali sono costrette ad assumere persone che si trovano catapultati in un’altra realtà culturale», spiega Luzia Mariani, presidente dell’Associazione Svizzera Infermiere e Infermieri (Asi) Ticino, per la quale questo è eticamente inaccettabile: «Gli altri Paesi investono per la formazione di personale specializzato per poi perderli». Per Mariani non bisogna però fermarsi al potenziamento delle scuole specializzate nelle cure ma migliorare le condizioni di lavoro per evitare l’abbandono, un fenomeno estremamente marcato nel settore. «Secondo l’osservatorio svizzero della sanità (Obsan) circa il 45% delle infermiere decide di lasciare l’impiego e la durata media nella professione è di 15 anni», ricorda Guidicelli che menziona uno studio dell’Obsan del 2016 che spiega le motivazioni principali che portano all’abbandono: «Si va da una bassa identificazione con l’incarico, che nel tempo ha assunto sempre più elementi di natura amministrativa e sempre meno di cura e contatto con i pazienti, dall’eccessivo carico delle mansioni dato da una dotazione del personale insufficiente, dalla difficoltà di conciliare professione e famiglia, alle condizioni salariali».

Con la seconda ondata torna la paura

Il coronavirus ha mostrato le falle del sistema sanitario, le stesse falle che le associazioni del settore e i sindacati denunciano da anni. L’iniziativa popolare “Per cure infermieristiche forti” lanciata dall’Asi nel 2017 ne è una prova. La proposta aveva lo scopo di obbligare Confederazione e i Cantoni a formare e impiegare un maggior numero di personale infermieristico diplomato. Il Consiglio federale, però, l’aveva respinta nel 2018. «Al momento dell’iniziativa non si pensava a una possibile pandemia, ma alle statistiche che mostravano un bisogno di infermieri in futuro anche dovute a un alto tasso di abbandono della professione», spiega Luzia Mariani.
 
La seconda ondata è arrivata e gli addetti del settore sono preoccupati: «Il personale ha paura di dover fare nuovamente turni lunghissimi senza avere il tempo per recuperare», prosegue la presidente di Asi Ticino. «Non avere il tempo per riposare significa non riuscire a offrire delle cure adeguate. Si fa quel che si può, ma il rischio per i lavoratori e le lavoratrici di ammalarsi fisicamente e mentalmente è alto».

Non abbiamo bisogno di soli applausi

La situazione era già critica prima. «Se prendiamo la categoria infermieristica, un sondaggio di fine 2019 aveva rivelato che il 90% ritiene di lavorare sotto pressione e l’87% pensa di non avere abbastanza tempo da dedicare ai pazienti», ricorda Fausto Calabretta, sindacalista Vpod Ticino. Un altro problema sollevato da Calabretta sono i salari: «Abbiamo chiesto all’Ente ospedaliero cantonale, per il prossimo rinnovo contrattuale 2021, un aumento dei salari, fermi al 2001, rincaro a parte». Dello stesso avviso anche Luzia Mariani che dice: «È necessario un riconoscimento, soprattutto in questo periodo di pandemia. Gli applausi ci sono stati, ma viene l’amaro in bocca quando poi si vede che finita la crisi ci si dimentica dei professionisti del settore sociosanitario, soprattutto da parte della politica».

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